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CROTONE – Cinquant’anni dopo, la Madonna crotonese scelta da Pierpaolo Pasolini per il suo “Vangelo secondo Matteo”, il capolavoro del ’64, si racconta al Quotidiano, e lo fa sull’onda dell’emozione forte che ha provato nell’apprendere del viaggio, compiuto dal regista Mimmo Calopresti (LEGGI LA NOTIZIA), attraverso i luoghi del film, da Cutro a Matera. Da 40 anni Margherita Caruso, emigrata da Crotone dove si diplomò come perito chimico, vive a Milano; ha lavorato come tecnico di laboratorio nel reparto di Nefrologia dell’ospedale San Carlo, occupandosi di ricerca grazie anche alla «lungimiranza di un primario che coinvolgeva i suoi collaboratori».
Al cinema non ha più pensato, anche se le arrivò una «proposta seria» come quella di fare la nuora di Noè nella Bibbia di John Huston, film prodotto da Dino De Laurentis nel ’66. «Le foto me le fece mio padre alla villa comunale, forse avrei dovuto mandare un book realizzato da un professionista, magari non mi hanno scelto per questo», dice, ma «senza nessun rammarico». Forse l’unico rammarico è che a Crotone e a Cutro si fa poco per ricordare che su questi luoghi si è affacciato il grande cinema. «Avremmo dovuto fare come a Matera».
Ma andiamo con ordine. Signora Caruso, sono passati 50 anni. Ma cosa si prova, ancora oggi, a sapere che il film in cui ha interpretato la Madonna è considerato il capolavoro cinematografico di Pasolini?
«Una soddisfazione enorme. Lascia sorpresi, anche se è una consapevolezza diffusa, che anche la Chiesa lo consideri un capolavoro. Il Vangelo fu ideato da Pasolini quando era ospite ad Assisi. Non voleva fare il pellegrinaggio perché sarebbe stato notato in pubblico. Invece, preferì stare in albergo a leggere il Vangelo e lo trovò un testo poetico, da cui promanava un’energia vitale. Decise di farne un film che non offende i credenti, pur essendo ateo, un film con varie stratificazioni in cui c’è anche autobiografia. Per esempio, in una delle ultime scene io mi trovo in una solfatara di Roma ad abbracciare Gesù Bambino, che ha tre anni, e Giuseppe. L’immagine di una famiglia armoniosa, come era quella di Pasolini nella sua infanzia, almeno fino a quando il rapporto con suo padre non si incrinò, mentre quello con la madre rimase sempre forte».
Perché Pasolini scelse Cutro, Crotone, Matera?
«Il Vangelo di Pasolini è un romanzo nazional-popolare in senso gramsciano. Lui fece sopralluoghi in Palestina, poi scelse il Crotonese perché ormai la Palestina era industralizzata. Non trovava neanche comparse, là. Decise di farlo qui il film perché cercava l’uomo arcaico e lo trovò in chi ha poca cultura».
Come fu notata da Pasolini?
«Avevo 14 anni e andavo a messa, come tutte le domeniche, con Elvira mia sorella, anche lei comparsa nel film (oggi ha un tabacchino). Stavamo per tornare a casa e, mentre ci scambiavamo gli ultimi saluti con gli amici, vedo che un ragazzetto scende da un’auto e mi guarda in modo ammiccante. Abbasso lo sguardo, intimidita. In realtà era Ninetto Davoli, ma ancora non lo sapevo. Mi rimetto a parlare con amiche e amici e mi sento bussare alle spalle. Era Pasolini. Mi dice: “mi conosci?”. “No”, rispondo. Si toglie gli occhiali e dice: “sono Pasolini, ti piacerebbe fare un film?”. Ci fu un boato tra i miei amici. Poi lui disse: «Ma prima dovrei parlarne con i tuoi genitori, perché sei minorenne». Il provino con lui era per strada. Mandava Davoli a fare domande provocatorie ai prescelti e lui se ne stava dietro a guardare come si muovevano. Pasolini sceglieva l’espressività e sul set non si lavorava col copione. Diceva all’ultimo momento quello che bisognava fare. Ma ho fatto un provino anche a casa sua, c’erano Morante, Moravia, Siciliano, Maraini».
Secondo lei si fa poco, in termini di operazioni culturali, a Cutro, a Crotone, per ricordare che questi luoghi sono stati frequentati dal grande cinema, per esempio rispetto a quello che si fa a Matera?
«Ho vissuto l’esperienza di Matera. Quella che era la città dei sassi e la vergogna dell’umanità è diventata punto attrattivo. Si muovono bene, in équipe, non escludono la territorialità. Mi piacerebbe che succedesse anche qui e non si dimenticasse la nostra storia, per esempio il Premio Crotone. Se un intellettuale accende i riflettori su un territorio perché vuole parlare del Sud del mondo e compiere un atto d’amore per gli umili, perché questo è il Vangelo di Pasolini, è un patrimonio da valorizzare».
Cosa le resta di Pasolini?
«E’ stato un incontro grande. Lui si faceva amare. Ci siamo scritti. Nel ’69 feci un concorso, andai a Roma, gli chiesi di poterlo incontrare e disse “sì, vieni”. Aveva una grande disponibilità dal punto di vista umano. Mi regalò “Le ceneri di Gramsci”, con la sua dedica autografa».
Ha più pensato al cinema?
«Ho avuto la proposta di Huston, una produzione De Laurentis, ma le foto me le fece mio padre alla villa comunale, forse ci voleva il book di un professionista. Eppure non ho rammarico. Mio padre mi avrebbe dovuto accompagnare a Roma per i provini. Ma era una persona molto pragmatica e pensava: «se faccio l’assenteista la Montedison mi licenzia».
Anche lui ha fatto la comparsa nel film, era un fariseo. La frase che pronunciava nel film?
«Dobbiamo trovare un modo per farlo morire». Adesso non c’è più, ci scherzava sempre perché diceva che sua figlia faceva la Madonna e a lui gli facevano dire queste cose. Se avessi voluto fare l’attrice, a Milano, dove mi sono trasferita nel ’73, ci sono tante scuole di teatro che avrei potuto frequentare. Ma ho ancora le mie soddisfazioni. Alla Cineteca di Milano mi auto invitai in occasione di una rassegna e mi diedero il microfono per cinque minuti: il pubblico, fatto di giovani, gente preparata, facce stimolanti, era entusiasta».
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