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Noi e i morti di Steccato, mancavano cento metri alla salvezza di quelle persone disperate, cento passi da noi, boss indifferenti
Steccato sembra un nome scritto dal destino. Tutta quella gente, anche quei due gemellini raccolti cadaveri in mare, e quel bambino, trovato in spiaggia, sono andati a sbattere contro proprio uno steccato proibito. Una enorme, invalicabile palizzata: quella costruita da Europa e Italia (da destra a sinistra) con i mattoni incrollabili del distacco, della noncuranza, dell’ipocrisia.
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I nostri si sbracciano tra tv e tweet in mezzo a preghiere e dolore sintetici omettendo, ma tanto per citarne una, d’aver approvato solo pochi giorni fa una legge morsa contro le organizzazioni che quei profughi li salvano in mare davvero. Loro, l’Ue, fanno spallucce di fatto, dichiarando che occorrerà fare di più. Che cosa? Il Patto sulla migrazione e l’asilo? Il Piano d’azione sul Mediterraneo centrale? Bufale, spesso piene di crepe dove far cadere chi si dice di voler proteggere.
Oltre alle scartoffie non abbiamo nulla, e gli stati membri sono distanti anni luce l’uno dall’altro. Così mentre noi, tutti, dormivamo sonni più o meno tranquilli, mancavano cento metri alla salvezza di quelle persone disperate. Persone, non ci stancheremo mai di ripeterlo, con nomi e cognomi, sogni, speranze anche dove non esiste speranza. Cento passi possiamo dire, parafrasando Bellocchio, come quelli che dividevano la casa di Peppino Impastato da quella del boss di Cinisi Gaetano Badalamenti.
Boss siamo tutti noi indifferenti, perché l’indifferenza uccide come la mafia. Boss sono gli ipocriti, quelli che dicono di voler fermare la strage impedendo a monte il traffico degli esseri umani, fingendo tra l’altro di non ricordare la matrice intollerante delle loro politiche. Per cui gli sfollati dell’Ucraina, bianchi, meritano (e lo meritano, certo) di essere accolti. Quelli dalla pelle scura, africana o mediorientale, no. Quando non si tratta di bombe e missili, la guerra si chiama, invece, lo imparino i sepolcri imbiancati che anche ieri dalle chiese saranno usciti con le facce composte della prima domenica di Quaresima, fame. Si chiamano fame e sete le guerre che combattono corpo a corpo le persone che fuggono.
Fermare le stragi, dicono. Vorrei porre a costoro una domanda: se il suo appartamento andasse a fuoco, che cosa farebbe? Non si getterebbe dalla finestra, pur di tentare una strada di salvezza? Bisogna andare a vedere che cosa è la vita nei paesi da dove ci si allontana. I morti di Cutro venivano per lo più da Afghanistan, Iran, Iraq, Siria e addirittura, forse, dalla Somalia. Dell’Afghanistan abbandonato dall’Occidente nelle mani di quegli stregoni assassini dei Taliban nessuno parla più, ma chi si informa sa bene che è un paese senza ormai più diritti, che per le donne è una non vita, che metà della popolazione non ha un tozzetto di pane da mangiare e tra questi, secondo gli ultimi dati, ben 14 milioni di bambini.
Chi scrive ha incrociato gli occhi di tanti afgani, iracheni, siriani. A Trieste, per esempio, dove arrivano dopo mesi di marcia sulla famigerata rotta Balcanica, feriti nei corpi e nelle anime, annientati dal freddo, dai boschi, dalla ferocia delle polizie (anche italiana). Ma ha visto anche tanti fantasmi senza una vita che tale si possa definire in Africa. Somalia compresa, piegata dalla più spaventosa mancanza d’acqua e cibo della sua martoriata storia.
Dall’altra parte del continente, in Benin, sulla cosiddetta costa degli schiavi, dove si consumò l’Olocausto nero, abbiamo visto e parlato con bambini anche di soli cinque anni (cominciano addirittura a due) costretti a spaccare pietre di granito tutto il giorno per un euro e mezzo a quintale, in modo da poter in qualche modo mangiare e andare a scuola; molti di questi piccoli già a 13 anni tentano la fuga attraverso la Nigeria, per poi scappare da quell’inferno verso la Libia e poi l’Europa sui barconi della morte.
E nell’Iran soggiogato dalla dittatura degli Ayatollah, dove si muore per un velo, o nell’Iraq sull’orlo di una nuova guerra civile, come pensate si possa vivere? Per non dire di Siria e Turchia (ci mancava lo spaventoso terremoto), da dove è partito il peschereccio. Nel suo “Kajin e la tenda sotto la luna” (edito da Pellegrini), Enzo Infantino, impegnato da sempre sul fronte della difesa dei diritti umani, ha descritto perfettamente, con Tania Paolino, la non vita dei rifugiati siriani prigionieri nei campi profughi a nord della Grecia, e ci ha raccontato spesso, durante i nostri incontri, delle sue lacrime e di quella sensazione di quasi impotenza di fronte alla sofferenza.
Gli ipocriti prendano un aereo, una nave, un’automobile, come fa Enzo, oggi anche al lavoro con la ResQ People, la nave battente bandiera tedesca che salva migranti nel Mediterraneo (già due missioni e oltre 120 persone strappate alla morte). Vadano a vedere da che cosa si fugge. “Il naufragio di Steccato di Cutro mi ha lasciato senza fiato”, ci ha detto Enzo. Di fronte a quei legni restituiti dal mare, a tutti quei corpi coperti dal cellophane bianco, noi aggiungiamo che questo disastro ci fa davvero incazzare. Ci sarebbe da uscire stamattina, bussare a tutte le porte e gridare sveglia, è ora di finirla di voltarsi dall’altra parte.
Hanno parlato Mattarella, la Meloni, Bergoglio, la Ursula von der Leyen. Ma gliele ha cantate (a tutti noi, intendiamoci) uno sconosciuto parroco, Rosario Morrone, a Botricello, dove alcuni cadaveri sono arrivati trascinati dal mare per quasi addirittura 10 chilometri dal punto del naufragio: “Non possiamo arrivare prima della morte, prima delle benedizioni? Benedicevo le salme, sì, ma pensavo, possibile che non riusciamo a riorganizzare l’umanità?”. Quale, caro Rosario, umanità. Quella che sta alla finestra, a “cento passi” dal dolore godendo dei suoi orti? Quella che tra poche ore (stampa inclusa) avrà già dimenticato i cadaveri di Steccato?
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