La conferenza stampa dell'operazione Jonny
6 minuti per la letturaSe non è un grande abbaglio, la bufera antimafia che si è abbattuta sul Centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto è un segnale forte di quanto lo Stato in Calabria, in certi casi, sia assente o, comunque, molto, molto disattento
SE non è un grande abbaglio (e, per la verità, le notizie apprese fino ad oggi spingono verso tutt’altra direzione), la bufera antimafia che si è abbattuta sulla gestione del Centro di accoglienza per i migranti di Isola Capo Rizzuto è un segnale forte di quanto lo Stato in Calabria, in certi casi, sia assente o, comunque, molto, molto disattento.
Non è di sufficiente consolazione che la Procura distrettuale di Catanzaro diretta da Nicola Gratteri (che pure Stato è) abbia imbastito l’inchiesta che ha portato a decine di fermi; non sarebbe di sufficiente consolazione se le ipotesi accusatorie venissero (tra qualche anno) definitivamente confermate nelle sedi giudiziarie.
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Sarebbe, caso mai, la conferma che lo Stato, in quel pezzo di Calabria e per quella pratica da centinaia di milioni di euro, non c’era. Per il momento, c’è spazio solo per incredulità e amarezza.
E sono sensazioni che non trovano alimento nelle gravissime accuse mosse dalla Dda ai presunti affiliati alla cosca Arena. In questi casi l’unico stupore è che si arrivi a ipotizzare accuse anche dopo 15 anni.
Ma, per il resto, l’inchiesta farà il suo corso e alla fine si tireranno le somme, andando eventualmente ad impinguare l’elenco dei mafiosi certificati di Calabria e delle loro scorribande che compromettono la vita economica e sociale di una comunità. No, l’incredulità e l’amarezza sono legate al fatto che qui non si tratta di ipotizzare l’esistenza di un’associazione mafiosa dedita a traffici di droga, estorsioni (a quelle poche imprese che sono rimaste), ecoreati o infiltrazioni nella gestione privata di mulini a vento.
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In questo caso l’ipotesi è che la gestione del centro per migranti, istituito e controllato dallo Stato, sia stata un bancomat per un gruppo di persone (mafiose o non mafiose) capace di fornire mazzette di banconote a fiumi. Lo Stato era poco attento. Se fosse stato attento, i magistrati probabilmente non avrebbero avuto elementi per indagare sul grosso affare. Che in questo caso si tratti di Prefettura o di altri organi si attende di saperlo. Il ministro dell’Interno Minniti ha annunciato ispezioni.
E la Commissione antimafia continuerà a fare accertamenti, anche grazie alla sollecitazione della deputata Enza Bruno Bossio, che negli ultimi anni ha fatto due sopralluoghi nel centro a cui erano seguite due interrogazioni in cui sollevava dubbi circostanziati sulla gestione del Centro immigrati di Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto, affidato, per la parte dei servizi, alla Misericordia. Dubbi rimarcati qualche anno fa dalla Bruno Bossio anche nel corso di sedute della Commissione antimafia.
L’incredulità, al netto delle chiacchiere di paese (“lo sapevano tutti”), che non incidono ed evidentemente non hanno avuto alcun effetto fino a qualche mese fa, quando è nata l’inchiesta, è legata anche alla figura di uno dei fermati, don Edoardo Scordio, parroco a Isola, accusato di ‘ndrangheta e indicato dagli investigatori in posizione di primo piano insieme al governatore della Misericordia Leonardo Sacco, quest’ultimo molto attivo (ben al di là di poco significative foto con i vip istituzionali) nei contatti formali con i pezzi dello Stato che sottoscrivevano gli appalti.
Don Edoardo accusato di ‘ndrangheta. E’ lo stesso prete che negli ultimi due decenni tante volte è apparso sui giornali nazionali per iniziative coraggiose contro la mafia, che in un’occasione invitò chiunque avesse armi clandestine a consegnarle, anche anonimamente, e annunciò il digiuno come segnale forte contro la guerra sanguinosa tra clan. Ne abbiamo scritto tutti. E’ lo stesso prete a cui fanno cenno, per le sue coraggiose omelie in occasione di funerali di mafia, Nicola Gratteri e Antonio Nicaso in “Acqua santissima”. Un prete, insomma, don Scordio, e un prete antimafia, e quindi lo stupore è perché un’accusa del genere non te l’aspetti per due motivi almeno. E questa era una (amara) parentesi su un’inchiesta che non ci sarebbe mai stata (quantomeno per le presunte infiltrazioni nella gestione del centro per migranti) se solo lo Stato si fosse comportato con meno leggerezza.
E, al di là degli approfondimenti che verranno, al di là degli esiti nelle aule di giustizia, il lavoro dei magistrati sul Sant’Anna dovrebbe essere un buon motivo perché lo Stato vada a verificare cosa succede oggi negli altri centri, piccoli e grandi, che abbiano a che fare con l’accoglienza dei profughi, in tutta la Calabria, ma non solo.
Sul concetto di accoglienza, poi, rimanendo all’inchiesta dei giorni scorsi, è appena il caso di sottolineare che se davvero i migranti venivano lasciati senza cibo o con cibo per animali, allora la sconfitta è stata segnata non solo per lo Stato che non ha controllato, come avrebbe dovuto fare, ma il tradimento… lasciamo stare: i commenti sono superflui e gli aggettivi difficili da trovare.
La sconfitta è su tanti fronti, non ultimo quello dell’occupazione che il mantenimento del centro nel territorio comporta. Centinaia di famiglie probabilmente hanno di che viverci, come avviene dappertutto. E se i meccanismi erano viziati, anche in questo senso le ingiustizie e le “sconfitte” sono state tante. Ed è inutile aggirare il problema principale (quello dello Stato che non c’era) tentando di liquidare il caso Isola come quello che ha interessato una comunità con gli anelli al naso: anche se fa comodo, così non è e il punto non è questo, ferma restando la presenza storica e attualmente riscontrabile delle cosche di ‘ndrangheta.
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La disattenzione nei controlli sulla gestione del Centro per migranti di Isola Capo Rizzuto, che non sembra azzardato considerare (nella più innocente delle ipotesi) una inefficienza che avrebbe aperto le porte ai business della malavita, dovrebbe far riflettere in generale sul livello di efficienza e attenzione che le pubbliche amministrazioni dovrebbero riservare a tutti i processi che hanno risvolti nel territorio. L’efficienza, ovviamente, è un concetto che nulla ha a che vedere con ‘ndrangheta e malaffare (che, caso mai, approfittano di “buchi” per ingrassare). Ma è inutile nascondersi che molto spesso l’inefficienza della pubblica amministrazione (i ritardi, le omissioni, le ignavie) fa danni che, depurati dai parametri di valutazione etica, pesano quanto quelli legati alla melmosa presenza della criminalità.
Nel momento in cui il governatore della Bce, Mario Draghi, afferma che «la crisi è alle nostre spalle» e «la ripresa nell’area euro è resiliente ed è sempre più ampiamente distribuita tra settori e Paesi», con «cinque milioni di occupati in più rispetto al 2013 e la disoccupazione, sebbene resti troppo alta, è ai minimi da otto anni», una regione ultima come la Calabria dovrebbe fare un attento esame di coscienza. Non è scritto da nessuna parte che il destino sia segnato. Ci sono idee, energie e aspirazioni anche qui.
Ma per evitare che le parole di Draghi rimangano valide per l’area euro tranne che per la Calabria, bisogna che chi ha responsabilità nelle decisioni e nel rendere agevolmente fattibili quelle idee e non vane quelle energie, si dia una mossa. Una mossa e una svolta. E vale per la Regione così come per i sindaci dei comuni più piccoli, per gli uffici decentrati dello Stato ad ogni livello. La sburocratizzazione di cui tanto negli ultimi anni si è parlato non è un obiettivo raggiunto. L’efficienza, oltre che a risparmiare guai e sciagure per questa terra, serve per farla risalire. E non è solo una questione di classifiche sul Pil.
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