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Vincenzo Capomolla

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‘Ndrangheta, il capo della Dda di Catanzaro, Vincenzo Capomolla: «Le cosche proliferano grazie all’ausilio di professionisti, imprenditori e politici. Pezzi di classe dirigente non hanno saputo resistere ai desiderata dei clan»


CROTONE – I profili evolutivi che emergono dalle inchieste condotte negli ultimi anni dalla Dda di Catanzaro hanno cristallizzato l’immagine di un soggetto criminale moderno. Una ‘ndrangheta silente, dalla vocazione affaristico-imprenditoriale, che spara molto meno rispetto al passato ma è in grado di riciclare le proprie risorse economiche di provenienza illecita e impadronirsi di ampie fette di mercato inquinando l’economia legale. La cronaca degli ultimi anni dimostra che le infiltrazioni della ‘ndrangheta sono in tutte le regioni d’Italia e in particolare al Nord, la zona più produttiva del Paese.

Il livello raggiunto dalle organizzazioni mafiose è sempre più sofisticato anche perché sono in grado di tessere relazioni con imprenditori, professionisti, uomini della politica e delle istituzioni, fagocitando pezzi interi di classe dirigente, al Sud come al Nord. Ma le proiezioni della ‘ndrangheta globale sono in tutto il mondo. Il procuratore Gratteri e il professor Nicaso parlano di una ‘ndrangheta dallo sguardo presbite e di legislatori quantomeno miopi. Miopia di fronte alle mafie, che ormai centellinano la violenza, quindi destano meno allarme sociale, ma riescono a occultare i propri capitali nelle piazze finanziarie off-shore e a infiltrarsi nel tessuto socio-economico di Paesi sforniti di norme antiriciclaggio stringenti come quelle italiane. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Capomolla, procuratore distrettuale antimafia di Catanzaro facente funzioni.

Procuratore, come si sta evolvendo la ‘ndrangheta?

«Le associazioni mafiose proliferano perché hanno rapporti con persone che noi non percepiamo come criminali: professionisti, imprenditori, politici. Una parte della classe dirigente, negli anni, non ha saputo resistere ai desiderata delle organizzazioni criminali. Così il clientelismo, che si fonda su logiche distorte, ha posto le premesse per la realizzazione di una condizione di inadeguatezza dell’apparato pubblico. Con lo scioglimento dei Comuni vediamo, per esempio, levate di scudi. Ciascuno si sente vittima della situazione ma non ci si rende conto dei legami che si instaurano e non c’è consapevolezza dei comportamenti virtuosi che devono regolare la vita delle nostre comunità. Le mafie, che sono strutture del male, hanno bisogno dell’ausilio di professionisti per svilupparsi. Anche quando si presenta in veste amicale, il fine dell’organizzazione criminale è sempre lo stesso: l’interesse particolare. E invece la nostra Costituzione parla di solidarietà».

Alcuni suoi colleghi hanno stigmatizzato i ritardi dell’Italia negli investimenti sull’investigazione tecnologica rispetto ad altri Paesi europei che, per esempio, sono riusciti a “bucare” le piattaforme criptate. Proprio di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno “salvato” maxi processi alla ‘ndrangheta e ai narcos sudamericani ritenendo utilizzabili milioni di conversazioni intercettate tramite criptofonini, acquisite dagli inquirenti e depositate in oltre 70mila dispositivi sparsi nel mondo. La controversa questione era stata sollevata dopo che autorità inquirenti francesi erano riuscite a bucare la piattaforma SKY ECC…

«La legislazione italiana è stata all’avanguardia. Alcuni Stati, però, hanno preferito non guardare a questo modello perché quell’allarme sociale che qui si era sviluppato non si è diffuso altrove. In Italia si potevano fare intercettazioni ambientali, approfondimenti patrimoniali e bancari per verificare le accumulazioni illecite ma in Germania, ad esempio, non era previsto. Abbiamo usato strumenti, anche invasivi, come i trojan per contrastare la criminalità, sono state adottate normative per sottrarre, attraverso la confisca, ricchezze a chi commetteva azioni illecite. L’Italia, dal punto di vista tecnologico, negli ultimi anni si è trovata, invece, nella condizione di dover rincorrere. Francia, Olanda, Belgio sono entrati nei server in cui si trovano le comunicazioni criptate. Ma anche l’autorità giudiziaria italiana ne ha beneficiato. Si globalizza non solo la criminalità ma anche il contrasto al crimine organizzato. Per stare al passo con l’evoluzione cibernetica e telematica servono risorse».

Di recente si è registrata una tendenza inedita nel Crotonese. A Cutro, che negli ultimi anni ha assunto una dimensione da capitale mafiosa in seguito al tentativo del boss Nicolino Grande Aracri di creare un crimine autonomo da Polsi, alcuni imprenditori hanno denunciato le nuove leve dei clan facendo scattare una retata. La città si è schierata con i denuncianti, scendendo in piazza in loro sostegno. Come legge questo dato?

«È un dato estremamente positivo. Uno degli elementi che caratterizza le organizzazioni criminali è la capacità di comprimere la libertà di autodeterminazione delle persone. Abbiamo esempi di imprenditori che hanno pagato pensando che avrebbero evitato di trovarsi in situazioni peggiori, altri, invece, hanno pensato che le mafie fossero un’opportunità per accrescere mercato e fatturato. La criminalità organizzata non è fatta solo da killer ma anche da quanti trovano vantaggioso entrare in relazione con le mafie. Ecco perché è importante una risposta della categoria imprenditoriale. La denuncia è la risposta di una comunità che isola e condanna quanti commettono atti di violenza».

Siamo all’anniversario della strage di Capaci. Da un’inchiesta ‘della Dda di Reggio Calabria, emerge che la ‘ndrangheta condivise la strategia stragista, come sancisce anche la sentenza d’Appello. Cosa è cambiato dal periodo stragista? La strategia del basso profilo, nome in codice davvero emblematico per un’importante inchiesta della Dda di Catanzaro, si è rivelata vincente per la ‘ndrangheta?

«Quella di Cosa nostra in Sicilia è stata una reazione frontale nei confronti di uno Stato che stava dando delle risposte attraverso una serie di processi arrivati a sentenza definitiva di condanna. Alcuni esponenti della ‘ndrangheta, siamo a sentenza di secondo grado, avrebbero partecipato a questa strategia commettendo attentati nella provincia di Reggio Calabria, mi riferisco per esempio al duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo. Questo invito a prendere parte a strategie stragiste non sarebbe stato accolto però da alcuni esponenti di organizzazioni ‘ndranghetiste che hanno agito in modo da non determinare reazioni radicali da parte dello Stato. Tutto questo era funzionale, ovviamente, alla realizzazione dei profitti illeciti e al tentativo di non alterare i rapporti con la comunità di cui la ‘ndrangheta vuole il consenso».

Lei ha coordinato il lavoro di dodici magistrati della Procura antimafia di Catanzaro, ha condotto alcune tra le inchieste più importanti degli ultimi anni contro le cosche della Calabria mediana e settentrionale e ha raccolto l’eredità del procuratore Nicola Gratteri, che ha sempre avuto parole di grande stima per le sue doti professionali e umane. Come è stato lavorare a fianco di Gratteri?

«Gli anni di lavoro col procuratore Gratteri sono stati un’esperienza entusiasmante perché abbiamo creato un modello di organizzazione del lavoro che ha consentito a ciascun magistrato di operare in libertà mettendo a sistema, in una visione comune, il risultato. Il rischio delle indagini di criminalità organizzata è che, non avendo sempre consapevolezza di come le cosche si muovano sul territorio, alcune cose possano sfuggire. Invece, con un lavoro di squadra, tutto cambia. In questi anni abbiamo avuto la possibilità di dare risposte a domande di giustizia. Di fondo è questo il senso del servizio del nostro lavoro. L’importante è non arrendersi».

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