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Quello che resta del barcone arenatosi a Cutro

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CUTRO (CROTONE) – Porta dritto fino a Kabul l’inchiesta avviata dalla Procura di Crotone per fare luce sul tragico naufragio del 26 febbraio scorso, in cui sono morti almeno 87 migranti che viaggiavano stipati in un caicco schiantatosi contro una maledetta secca. Emerge dalle testimonianze dei superstiti che presto approderanno nell’incidente probatorio che si sta celebrando dinanzi al Tribunale minorile di Catanzaro (le udienze proseguono oggi e domani), poiché uno dei presunti scafisti, un giovanissimo pakistano, non ha ancora compiuto 18 anni.

L’inchiesta porta a Kabul perché, stando a quanto stanno raccontando agli investigatori della Squadra Mobile della Questura di Crotone i superstiti, gli organizzatori della tragica traversata sono afghani. Al vaglio degli inquirenti ci sono nomi e immagini. Sì, anche immagini. Perché, da quanto è stato possibile apprendere, uno dei migranti, durante un interrogatorio svoltosi al Centro d’accoglienza S. Anna, ha mostrato d’iniziativa due video, contenuti nella memoria del suo cellulare, in cui viene filmata la consegna di somme, da parte dei suoi familiari, a trafficanti afghani. La conferma viene da uno degli avvocati nominati per assistere i migranti. Già, perché – è un paradosso – gli scampati al massacro rivestono pure lo status di indagati, con l’accusa di violazione della legge sull’immigrazione, essendosi introdotti “clandestinamente” nello Stato italiano, anche se avranno con ogni probabilità accolta la loro richiesta d’asilo perché fuggono da massacri e persecuzioni, considerati i Paesi di provenienza.

La consegna del denaro sarebbe avvenuta a Kabul e dalle immagini si notano i volti di chi prende in mano i dollari. Le cifre versate da ciascuno dei migranti variano dai settemila agli ottomila dollari. Uno di coloro che ricevono il denaro ha la barba bianca, sembra anziano. Secondo un’altra testimonianza uno degli organizzatori afghani ha un nome. Quello di Said Reza. Il teste ricorda che come garanzia di pagamento suo padre aveva impegnato una villa e un terreno di cui sarebbe divenuto proprietario un mediatore, in caso di viaggio andato a buon fine; un mediatore che al trafficante afgano avrebbe versato anticipatamente 120mila euro al trafficante.

Ammonterebbe complessivamente a un milione il bottino racimolato dai sei presunti membri dell’equipaggio, uno, un siriano, ancora irreperibile, quattro, turchi e pakistani, fermati, e un sesto, un altro turco, morto nel naufragio. Chissà che fine ha fatto quello zaino nero contenente il denaro e che, secondo le testimonianze dei migranti, era custodito sotto il sedile su cui si accomodava uno degli scafisti. A questo punto non è azzardato ipotizzare che le indagini sulla tratta potrebbero passare alla Dda di Catanzaro, perché i requisiti dell’associazione a delinquere sembrano esserci tutti, tanto più che l’organizzazione transnazionale che lucra sulla pelle dei migranti disponeva di diverse imbarcazioni. La “Luxury 2”, che ad alcuni disperati sembrava costruita per far viaggiare “persone importanti”, dopo un’ora di navigazione aveva già un’avaria al motore ed è stata sostituita con quel legno malandato denominato “Summer Love”. Del resto, la Dda guidata dal procuratore Nicola Gratteri indaga da tempo sulla rotta dell’Egeo, da trent’anni battuta da trafficanti senza scrupoli.

Negli ultimi anni, almeno prima della guerra, la manovalanza degli scafisti era ucraina, ma la regia era di un’organizzazione di matrice turca. Ed è su questa che i finanzieri hanno acceso i riflettori. Ma le indagini sono difficili. La Turchia non collabora. Ma se quasi tutti i giorni partono barconi ricolmi fino all’inverosimile costeggiando coste turche e greche, è possibile che le autorità di quei Paesi non ne sappiano nulla? Dal chiudere un occhio all’essere complici, a volte, il passaggio è breve.

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