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Lea Garofalo

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Studio dell’università di Milano sul ruolo delle donne nella mafia. La vicenda spartiacque di Lea Garofalo secondo Dalla Chiesa


La vicenda “spartiacque” è quella di Lea Garofalo, la testimone di giustizia di Petilia Policastro uccisa a Milano e i cui resti furono gettati in un tombino dai suoi aguzzini. Una vicenda che si inserisce nel faticoso e drammatico percorso di liberazione compiuto da alcune donne calabresi all’interno della struttura organizzativa criminale della ‘ndrangheta, da sempre incentrata sui rapporti di parentela. Anche se si tratta di un tentativo di defezione minoritario in un mondo maschilista per eccellenza. Questo il focus dell’ultimo numero della Rivista di studi e ricerche a cura dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata del Dipartimento di Studi internazionali giuridici storico-politici e del Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università degli Studi di Milano.

Nell’editoriale del direttore, Nando dalla Chiesa, sul tema “Donne e mafia. Aprirsi alla storia”, si sottolinea non a caso il carattere “inedito” della vicenda di Lea, definita come «una introduzione sulla nuova era, quella che ha trasformato l’antimafia delle donne in uno straordinario pezzo di modernità civile».

LE RIBELLI

Il gruppo di scritti di cui si compone il secondo numero del 2024 della Rivista, appena uscito, esplora il complesso universo femminile della criminalità organizzata.

Donne che sono sempre meno comparse subalterne e diventano sempre più protagoniste assumendo anche funzioni di comando, sia pure temporaneo. Il numero si conclude significativamente con la recensione curata da Liliana Azara, docente di Roma3, della recente edizione del libro Le ribelli, dello stesso Dalla Chiesa, uscito per la prima volta nel 2006 e ripubblicato in nuova forma nel 2024. Alle storie originarie di Francesca Serio, Felicia Impastato, Saveria Antiochia, Michela Buscemi e Rita Atria, si sono aggiunte una storia più ampia e aggiornata di Rita Borsellino e la «storia inedita e spartiacque, specie al Nord», di Lea Garofalo.

IL CORPO FEMMINILE

Lea nasce in una famiglia della ‘ndrangheta e si innamora giovanissima di Carlo Cosco che segue a Milano, dove l’uomo controlla il traffico di droga della zona di via Paolo Sarpi. Rimane incinta di Denise a 17 anni e a 35 viene brutalmente assassinata dall’ex compagno insieme ad altri complici per essersi opposta a quel contesto di criminalità. «Del corpo di Lea non rimase quasi nulla. La ferocia criminale si abbatte sull’ennesimo corpo femminile che aveva osato ribellarsi. Tutto questo nella “civilissima” Milano che per decenni si è considerata del tutto estranea alle culture della criminalità organizzata».

Sulla valenza simbolica del corpo femminile contro cui si accanisce con ferocia la violenza mafiosa si è soffermata, nel suo contributo, Anna Lisa Tota, prorettrice vicaria di Roma3. Il corpo delle donne rappresenta, infatti, anche il «principale spazio simbolico in cui si esercita l’egemonia del patriarcato fino alle sue più estreme conseguenze: quelle della violenza fisica, psicologica, economica, quelle dell’annientamento materiale e spirituale ad un tempo».

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DONNE E MAFIA

Dalla Chiesa, in particolare, ricorda come sia stata ormai smontata la tesi, a lungo accreditata in ambito giudiziario, secondo cui le donne non potevano essere imputate di associazione mafiosa. Un riferimento al fatto che il codice mafioso non ne prevede l’affiliazione in senso formale. Ma il ruolo progressivamente assunto dalla donna nelle organizzazioni criminali si è evoluto, fino a raggiungere funzioni di reggenza in assenza di mariti o padri detenuti. Un’emancipazione soltanto apparente perché la leadership rimane saldamente ancorata in mano maschile.

IL DISSENSO

Non solo nel mondo di Cosa Nostra, ma anche in quello ancor più «granitico» della ‘ndrangheta, affiorano punte di dissenso con storie tragiche ma di «enorme potenza simbolica» come quelle di Lea Garofalo e di Maria Concetta Cacciola. Senza esempi di questo tipo non ci sarebbe stato spazio per la «straordinaria esperienza calabrese di “Liberi di scegliere”, fondata sulla possibilità di sottrarre la potestà genitoriale a quei suoi titolari, specie maschi, tenacemente dediti ad avviare alla violenza mafiosa i propri figli dalla più tenera età», scrive Dalla Chiesa, accennando alla battaglia del giudice minorile Roberto Di Bella tradottasi in un protocollo per affrancare i giovani dalle logiche criminali.

Dalla Chiesa parla, infatti, di un’“antimafia donna”  che ha avuto la sua origine nella «crescente rivolta e nella domanda di giustizia delle familiari (mogli, madri, figlie e sorelle) prima di dirigenti contadini e poi di magistrati, giornalisti, imprenditori e uomini delle istituzioni. E si è congiunto con l’opera contro-educativa sempre più vasta di nuove generazioni di maestre e professoresse nella scuola».

GIORNALISTA A RISCHIO

Interessante anche una drammatica intervista-saggio della coordinatrice di redazione della “Rivista”, Ombretta Ingrascì, a Marcela Turati, simbolo del Messico che resiste ai narcos. Oggi Turati è la giornalista più a rischio al mondo. Ed è senza scorta, perché non si fida nemmeno delle forze dell’ordine del suo Paese. La giornalista racconta soprattutto il movimento dei buscadores, ossia di coloro che cercano i corpi dei desaparecidos, fatto di familiari ma anche di giornalisti – soprattutto di giornaliste – che, unici al mondo, e con alle spalle circa 200 colleghi uccisi, hanno creato lo specialissimo genere del giornalismo di búsqueda, di ricerca, cosiddetto per la capacità di riconoscere i possibili luoghi della “sepoltura” dallo stato del terreno e perfino dagli odori che ne promanano.

“VERITÀ E GIUSTIZIA”

Nel numero si mette in luce soprattutto l’enorme trasgressione, rispetto al codice dell’omertà e del silenzio, da parte delle ribelli come Lea Garofalo, ripercorrendo anche una storia processuale che le ha dato “verità” e “giustizia” e «simboleggia la sconfitta della cultura mafiosa quando essa più atrocemente si estrinseca, nella convinzione dei carnefici di godere della protezione dell’omertà e della violenza domestica». Un punto su cui, in realtà, non si può essere del tutto d’accordo perché neanche la Cassazione ha rimosso il vulnus che permea la vicenda giudiziaria, essendo stata esclusa dai giudici l’aggravante mafiosa, ciò che equivale a derubricare a mero femminicidio il sacrificio di Lea.

IL “CLAMORE”

Si sottolinea anche che la vicenda giudiziaria non fu accompagnata da clamore nonostante si tratti di «un processo destinato a entrare di diritto nella storia per una serie di fattori e di elementi che lo pongono ai confini tra la dimensione criminale e quella del costume civile». In effetti, i giornali nazionali si accorsero soltanto dopo gli arresti dei killer, un anno dopo, che era scomparsa una testimone di giustizia. Ma lo aveva raccontato in esclusiva il Quotidiano poche settimane dopo che Lea svanì nel nulla a Milano.

Non pubblicarono neanche il memoriale di Lea, che scrisse una lettera aperta al Capo dello Stato (allora Giorgio Napolitano). Allora si definiva “madre disperata”. Fuggiva di città in città in attesa di essere sentita da un magistrato lamentando la mancanza di una «tutela adeguata» per lei e sua figlia Denise. E temeva una «morte indegna e inesorabile». Era aprile 2009 quando Lea scriveva. Il memoriale lo pubblicò il Quotidiano appena arrivò in redazione, nel dicembre 2010.

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