Tibertio Bentivoglio durante la sua testimonianza
3 minuti per la letturaCROTONE – «Ho paura, e siamo in tanti ad avere paura, per Nicola Gratteri. Se salterà in aria non sarà colpa solo della ‘ndrangheta. Ci dobbiamo impegnare di più perché questo momento storico somiglia molto a quello di 30 anni fa, quando morì Giovanni Falcone».
Parola di Tiberio Bentivoglio, il noto testimone di giustizia reggino che ieri ha ripercorso il suo calvario incontrando i ragazzi di Libera e gli studenti del liceo Galilei di Ancona, impegnati in un campus nei terreni confiscati alla cosca Arena di Isola Capo Rizzuto, gestiti dalla coop Terre joniche di isola Capo Rizzuto, e i loro colleghi del liceo magistrale Gravina di Crotone e dell’istituto nautico Ciliberto di Crotone, ma ha colto anche l’occasione per dire la sua sul caso Gratteri.
Mentre iniziava con un sit-in a Catanzaro la mobilitazione scattata su scala nazionale a sostegno del capo della Dda del capoluogo calabrese, “bocciato” dal Csm che gli ha preferito Giovanni Mellilo alla guida della Dna e finito al centro di un progetto di attentato dei narcos sudamericani ai quali con le sue inchieste ha tolto grosse fette di mercato, Bentivoglio, rispondendo alla domanda di Davide, del team dei Disobb3dienti, un gruppo di studenti del Nautico da tempo impegnati in un progetto di monitoraggio civico coordinato dalla professoressa Rossella Frandina, ha espresso tutta la sua preoccupazione. «Finché in magistratura comandano la politica e le cosiddette correnti, questo non sarà un Paese sano. Io, però, la penso come Falcone. La mafia sarà sconfitta. Altrimenti non avrei scritto un libro dal titolo “C’era una volta la ‘ndrangheta”».
La testimonianza di Bentivoglio è stata toccante e ha catturato l’attenzione dei ragazzi, ai quali la figura del testimone di giustizia divenuto icona antimafia è stata introdotta da Umberto Ferrari, coordinatore regionale di Libera. Bentivoglio ha rievocato gli esordi della sua florida attività imprenditoriale, i primi 13 anni splendidi grazie all’intuizione che gli consentì di divenire un riferimento per tutta la provincia reggina con la sua rivendita di articoli sanitari per bambino. «Il fatturato era di due miliardi di ex lire, avevo sette dipendenti, i furgoni andavano e venivano».
La prima intimidazione risale alla vigilia dell’attentato a Borsellino, il 18 luglio ’92, quando un losco figuro gli chiede una tangente perché ha appena aperto il secondo negozio, più grande del primo. «Non è stato facile dire no, ma mi sono rifiutato di levarmi il cappello». Da allora è stato uno stillicidio di incendi e intimidazioni, fino all’attentato del febbraio 2011, quando si salvò soltanto perché uno dei proiettili sparati al suo indirizzo rimase conficcato nel marsupio in pelle che portava a tracolla. Bentivoglio ha ripercorso anche un’odissea giudiziaria fatta di ben sei processi penali in cui si è costituito, l’ultimo dei quali viaggia verso le battute finali, e non ha nascosto che ci sono stati momenti di sconforto superati grazie anche alla testardaggine agrigentina di sua moglie. «Stavo per consegnare simbolicamente le chiavi dell’attività al prefetto della mia città», ha ricordato. Una città in cui il «passaparola mafioso» prevedeva che non bisognava più fare acquisti da Bentivoglio “lo sbirro”, “il confidente”, “l’infame”, come viene ribattezzato, nel codice ‘ndranghetistico, chi spezza la catena dell’omertà denunciando.
Una città in cui Totò Riina in persona, nell’ottobre ’91, si sarebbe nascosto travestito da prete, ha ricordato Bentivoglio per rappresentare quanto asfissiante fosse la cappa mafiosa in riva allo Stretto in quegli anni. Ma Bentivoglio non demorde, anche se gli affari non vanno come un tempo, perché ogni volta, dopo ogni incendio, ha dovuto ripartire da zero, perché gli aiuti dello Stato arrivano a stento e in ritardo, perché quel “passaparola” ancora fa sentire i suoi effetti.
Lui, però, la pensa come Falcone, la mafia sarà vinta. Per questo è importante denunciare. «Denunciare significa raccontare quello che accade, è un fatto di democrazia. Pagare il pizzo è contro la nostra Costituzione, significa commettere un reato».
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