Giuseppe Arabia
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Operazione Ten, l’attenzione spasmodica di Arabia alle rivelazioni dei collaboratori di giustizia accusati di essere “infami”
CUTRO – Commentava con disappunto la proliferazione di collaboratori di giustizia all’interno della cosca Grande Aracri di Cutro. Chi apre un dialogo con lo Stato è un “infame”. Punto e basta. Parola di Giuseppe Arabia, leader indiscusso del gruppo criminale sgominato con l’operazione Ten dalla Dda di Bologna, operante nel Reggiano ma con saldi legami con la casa madre Cutro. L’unico ad aprire crepe in un’organizzazione che si riteneva impenetrabile era stato, negli anni Ottanta, il solo Rocco Gualtieri, diceva Arabia durante una conversazione intercettata. «A Cutro pentiti non ce ne sono mai stati». Se si eccettua, appunto, Gualtieri, apostrofato con insulti perché «faceva il pentito per la droga a Raffaele Dragone». Poi Arabia passa in rassegna le varie gole profonde del clan. Da Salvatore Cortese ad Antonio Valerio, da Pino Giglio a Salvatore Muto.
OPERAZIONE TEN, ARABIA E I COLLABORATORI DI GIUSTIZIA: «QUELLO SA LE COSE SERIE»
Ma quello che «sa le cose serie», sostiene Arabia, è Giuseppe Liperoti, del quale viene ripercorsa la parentela con la famiglia Grande Aracri. Liperoti, infatti, è il genero di Antonio Grande Aracri, fratello di Nicolino, il boss ergastolano. «Ha fatto trovare le armi a Scarazze. Ha detto tante cose dei cristiani morti, che sono tanti, tipo mio fratello». Il riferimento è alla moto utilizzata per l’omicidio di Salvatore Arabia che proprio Liperoti ebbe l’incarico di trasportare. Il pentito racconta di un incontro con Pino Grano di Mesoraca e Sergio Iazzolino di Sersale che lo portarono in una zona antistante la spiaggia di Steccato per prelevare la moto in quanto doveva servire per l’agguato al boss rivale Antonio Dragone, del quale Arabia è nipote. «Anche se mi facevano trasportare la moto utilizzata per un omicidio non mi adirai perché l’obiettivo di ammazzare Dragone era troppo importante», precisa il pentito.
«GRATTERI NON L’HA VOLUTO»
Ma Arabia ritiene infamante anche il solo tentativo di collaborare con la giustizia. Per questo stigmatizza la condotta di Nicolino Sarcone, condannato quale capo della cellula reggiana del clan. «Gratteri non l’ha voluto perché gli ha detto le stesse cose che ha detto Valerio». L’attenzione per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia è spasmodica.
IL REGISTRATORE
«A livello di malandrineria queste cose non si fanno percé lui vuole parlare con lo Stato», diceva Arabia, commentando la condotta di Francesco Amato, originario di Rosarno. L’uomo, condannato a 19 anni nel processo Aemilia con l’accusa di essere uno degli organizzatori della cellula emiliana del “locale” di ‘ndrangheta di Cutro, fece parlare di sé anche perché dopo la sentenza compì un’irruzione, barricandosi per quasi otto ore, alle Poste di Pieve Modolena, armato di coltello, con cinque ostaggi. Arabia, che condivise la cella con Amato, ne parlava in maniera sprezzante perché, con un registratore addosso, avrebbe tentato di far arrestare il boss Carmelo Bellocco, esponente di vertice dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Rosarno. Francesco Amato riteneva, infatti, la cosca Bellocco responsabile dell’omicidio di due suoi fratelli. Ma è un comportamento da “infame” perché contravviene alle regole della ‘ndrangheta.
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