Udienza del maxi processo Stige
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La Cassazione deposita le motivazioni della sentenza Stige contro il “locale” di Cirò. Ma rito abbreviato e rito ordinario stridono
CIRÒ MARINA – «Le valutazioni di entrambi i giudici di merito riposano su un monumentale compendio istruttorio, che ricomprende, accanto a plurime fonti dichiarative, gli esiti dell’articolatissima attività captativa, il cospicuo materiale documentario sul campo da parte degli investigatori, il tutto legato da condivisibili argomenti di ordine razionale». Sono le motivazioni per le quali la Corte di Cassazione, dichiarando inammissibili i ricorsi difensivi dei plenipotenziari, dei gregari e degli imprenditori di riferimento del “locale” di ‘ndrangheta di Cirò, ha inflitto condanne per quattro secoli di carcere agli imputati che hanno scelto il rito abbreviato nel processo scaturito dall’inchiesta che nel gennaio 2018 portò alla mega operazione “Stige”. La Dda di Catanzaro e i carabinieri, che arrestarono 170 persone, disarticolarono una super cosca che dal Crotonese si proiettava nel Cosentino e aveva ramificazioni nel Nord Italia e in Germania.
Ma i motivi per i quali passano in giudicato 41 condanne sembrano stridere con l’esito del rito ordinario. Nel processo d’appello, che ribaltava il primo grado di giudizio, la tesi accusatoria del patto tra politica e clan e della cappa mafiosa sull’economia non ha retto. Assolti ex amministratori e imprenditori nonostante quattro consigli comunali sciolti e l’emissione di interdittive antimafia contro grosse imprese.
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MUTAMENTO DI STRATEGIA E IL TRIUMVIRATO
Invece, nel filone del rito abbreviato che ha seguito un iter più lineare, gli ermellini rilevano un «mutamento di strategia» della cosca che, dopo aver acquisito un «predominio indiscusso» nel territorio di riferimento ed in altre aree d’Italia e d’Europa gestendo estorsioni, appalti, traffici di stupefacenti e armi, ha individuato «settori imprenditoriali verso cui indirizzare cospicue risorse materiali e umane con altrettanto rilevante ritorno economico (raccolta dei rifiuti, accoglienza migranti, produzione di materiali plastici…)». Ciò «in aggiunta ai consolidati ambiti delle estorsioni e delle infiltrazioni nelle amministrazioni locali».
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Nel periodo focalizzato dall’inchiesta, dato lo stato detentivo del “triumvirato” apicale (composto da Giuseppe Farao in quanto capo crimine, dal fratello Silvio Farao e da Cataldo Marincola), «la direzione esecutiva degli affari del “locale”, ferma restando l’immutata posizione del vertici, era stata affidata a un secondo “triumvirato” di reggenti». Si tratta di Giuseppe Sestito e Vito Castellano (”delegati” per Cirò Superiore) e Giuseppe Morrone (responsabile per Cirò Marina). Accanto a questi ultimi, ed a loro subordinati seppure con un ruolo sovraordinato, i «preposti alle attività più prettamente commerciali», ovvero Martino Cariati e Giuseppe Spagnolo e Vittorio Farao, classe 1978, «uomo di collegamento tra il capocosca detenuto e i reggenti».
STIGE, LA CASSAZIONE E IL FIGLIO DEL BOSS DI CIRÒ
Secondo i giudici, le informazioni veicolate dai collaboratori giustizia sentiti nel processo sono state sottoposte a un «vaglio attento». Tra loro c’è Francesco Farao, figlio del boss, che ha intrapreso la sua scelta dopo l’arresto nell’operazione Stige. Una scelta che «discende da una chiara volontà di recidere ogni legame con la famiglia di origine». Pur non costituendo, le dichiarazioni dei pentiti, il nucleo portante dell’accusa, il loro contributo ha consentito di «fare luce su numerosi fatti, arricchendoli di dettagli e di retroscena, spiegando connessioni e moventi nel loro contesto storico e strategico».
Pur in assenza di formale “battesimo”, Francesco Farao risulta «perfettamente a conoscenza del sistema ‘ndranghetlstico in cui si è sempre mosso». E dimostra di averne «perfettamente interiorizzato le regole, nel solco dell’insegnamento del padre». Francesco Farao ha scelto «consapevolmente» di svolgere attività imprenditoriali nel territorio in cui «il peso del suo cognome garantiva collaborazioni e clientela, poiché nessuno intendeva scontentare Il figlio del boss».
In tal modo, l’imputato, «beneficiando in prima persona del controllo mafioso del territorio», ha a sua volta «rafforzato l’Immagine della cosca, come organismo capace di inserirsi in maniera capillare nel tessuto economico». Così facendo, d’altra parte, ha «esattamente ottemperato» alle indicazioni del padre che raccomandava ai propri congiunti di operare in ambiti leciti, lasciando ad altri più esperti membri del sodalizio «i compiti più brutali».
L’EX SINDACO SICILIANI
Tra i condannati c’è anche l’ex sindaco di Cirò Marina Roberto Siciliani. Per lui passa in giudicato la pena di 8 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte ne rileva il «dinamismo qualificato» al fine di essere «compiutamente sostenuto nella propria competizione elettorale nell’anno 2011 dalla consorteria criminale», anche sulla base di «consolidate relazioni con persone al vertice della cosca» e «realizzando una serie di attività di conferimento di beni immobili».
Ma è appena il caso di ricordare che tra le assoluzioni in appello del rito ordinario spiccava quella dell’ex presidente della Provincia di Crotone ed ex sindaco di Cirò Marina Nicodemo Parrilla, in primo grado condannato a 13 anni di reclusione. Nel 2006 eletto Parrilla, nel 2011 Siciliani, nel 2016 di nuovo Parrilla (poi divenuto anche presidente della Provincia di Crotone) in contrapposizione a Siciliani ma, secondo gli inquirenti, sempre col sostegno dei clan. La tesi accusatoria è che la ‘ndrangheta fosse trasversale agli schieramenti politici.
STIGE, LA CASSAZIONE IL BOSS LATITANTE E IL RUOLO DI APICE NEL CLAN DI CIRÒ
Per quasi tutti i 13 per i quali è stato disposto un nuovo processo, con l’annullamento con rinvio della sentenza d’appello impugnata, è stata dichiarata irrevocabile la condanna per associazione mafiosa. Tra coloro per i quali è stato disposto un processo d’appello bis c’è Cataldo Marincola, per il quale la pena in Appello scese da 20 anni a 7 anni e 4 mesi.
È uno dei due leader storici insieme a Giuseppe Farao, l’anziano boss che però ha scelto il rito ordinario e s’è beccato in Appello 24 anni. Gli ermellini rilevano l’«ininterrotta posizione di apice condivisa con i Farao» di Cataldo Marincola, che «ha continuato a decidere la politica criminale della cosca anche da latitante e da detenuto, mantenendo intatto il proprio carisma criminale». Tutti i pentiti hanno riferito che è rimasto nel «massimo direttorio della cosca». Ma «l’immutato ruolo direttivo» sarebbe stato svolto anche durante la latitanza, garantita dall’assistenza di un’ampia rete di affiliati, e nonostante la carcerazione.
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Neanche la pena inframuraria impedì a concorrenti esterni come il noto imprenditore Franco Gigliotti di «rivolgersi al vecchio capomafia per richiedere Il suo risolutivo intervento o per omaggiarlo». «Definitiva riprova» è poi individuata nella partecipazione, insieme a Giuseppe Spagnolo, uno dei plenipotenziari del clan, all’estorsione ai danni di Giuseppe Cavallaro, commessa in concorso durante un breve periodo di libertà.
GLI IMPRENDITORI
Definitive anche le condanne a 8 anni ciascuno per grossi imprenditori accusati di concorso esterno in associazione mafiosa come Franco Gigliotti, originario di Crucoli e considerato un punto di riferimento del clan nel Parmense, e Domenico Rocca, di San Mauro Marchesato, attivo nel settore dei rifiuti. In particolare, Gigliotti, oltre ad assumere presso imprese della sua holding gli eredi dei boss carcerati, è risultato essere in «rapporto affaristico» con un pezzo da novanta come Spagnolo. Un rapporto concretizzatosi con la costituzione della società G Plast che esercitava «in regime di quasi monopolio ‘ndranghetistico» la produzione e commercializzazione di film in materiale plastico.
Tra gli elementi di riscontro valorizzati dai giudici circa la posizione dell’imprenditore Rocca, invece, ci sono anche le dichiarazioni dell’ex assessore del Comune di Cutro Carletto Squillace «quanto alle pressioni ricevute per l’appalto sulla raccolta dei rifiuti, in base a sollecitazioni provenienti da Nicolino Grande Aracri nell’interesse della De.RI.Co. con coinvolgimento di Rocca quanto al subappalto». Il boss Grande Aracri aveva chiarito «con risolutezza» che l’unico interlocutore per la gestione dei lavori era lui.
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