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Una centrale a biomasse

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I motivi della sentenza sulla cosca di Mesoraca, Sila disboscata in modo seriale «strategica» rilevazione della centrale biomasse Marcegaglia a Cutro


CROTONE – L’acquisizione della centrale a biomasse di Cutro da parte della Serravalle Energy, che nel 2015 rilevò gli impianti del Gruppo Marcegaglia, assunse un’«importanza strategica». Quell’operazione era la «massima espressione» di un «programma criminoso», destinato a durare nel tempo e «maturato in un contesto di ‘ndrangheta», con cui la cosca di Mesoraca, guidata dal boss Mario Donato Ferrazzo, e il cartello di imprese a lui collegato puntavano al controllo del lucroso mercato del cippato. Sono le motivazioni della sentenza con cui la gup distrettuale di Catanzaro Gabriella Pede ha disposto 20 condanne nei confronti degli imputati che hanno scelto il rito abbreviato nel processo scaturito dall’inchiesta che avrebbe reciso i tentacoli della cosca Ferrazzo, allungatisi sulla centrale a biomasse già di proprietà del Gruppo Marcegaglia ma acquisita dal Gruppo Serravalle, ritenuto dalla Dda di Catanzaro vicino al clan.

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L’INCHIESTA SUL DISBOSCAMENTO DELLA SILA E LE CENTRALI A BIOMASSE

L’inchiesta portò a un blitz, denominato Black Wood, che avrebbe svelato che dietro l’affare delle biomasse ci sarebbe stata la ‘ndrangheta, che disboscava in modo seriale la Sila con tagli intensivi e conferiva di tutto nelle centrali, dalla spazzatura al catrame ai copertoni, con danni devastanti per l’ambiente. Le accuse, a vario titolo, erano di associazione mafiosa, traffico illecito di rifiuti, estorsioni, turbativa d’asta, reati in materia di stupefacenti. Ma c’è anche il filone del concorso esterno in associazione mafiosa, in relazione al quale la Dda aveva chiesto l’arresto – negato dal gip – dell’ex comandante della Stazione dei carabinieri forestali di Petilia Policastro Costantino Calaminici. Questi ha scelto il rito ordinario ed è stato rinviato a giudizio insieme a una settantina di imputati, per i quali il processo è ancora pendente dinanzi al tribunale penale di Crotone.

La cosca guidata dal boss di Mesoraca, Mario Donato Ferrazzo, anche a lui a processo col rito ordinario, era finita al centro delle indagini condotte dai carabinieri del Comando provinciale di Crotone e dai loro colleghi del Ros e del Nipaf di Cosenza che dal 2014 lavoravano ai fianchi la consorteria criminale. Il clan, secondo l’accusa, turbava appalti, vessava con estorsioni imprenditori e commercianti, gestiva le piazze dello spaccio a Mesoraca e Petilia Policastro e, soprattutto, aveva imponenti interessi nell’indotto economico costituito dall’area boschiva silana delle province di Crotone, Cosenza e Catanzaro. Tant’è che molti degli imputati sono titolari di aziende di settore, che operano nel taglio e nella lavorazione del materiale legnoso, conferito, successivamente, alle centrali a biomasse di Cutro e a quelle di Crotone e Strongoli, di Biomasse Italia.

CONTROLLO SULLA CENTRALE BIOMASSE E IL DISBOSCAMENTO IN SILA

Proprio la centrale di Cutro era ritenuta dai vertici dell’organizzazione criminale «un punto di approdo sicuro dove i conferitori potevano dirottare e scaricare quantitativi di materiale anche nel caso in cui questi fosse rifiutato da altre centrali per mancanza di requisiti qualitativi essenziali». A Cutro, infatti, si riduceva «al minimo» il rischio di controlli. Nella sentenza si parla di «estrema facilità con la quale le imprese alteravano o scambiavano i documenti di trasporto, senza timori di subire conseguenze». I pentiti, del resto, hanno narrato di summit di ‘ndrangheta volti a determinare gli equilibri nel settore del cippato. Decisivo il ruolo del boss Ferrazzo per i suoi «legami con i Serravalle» e il «controllo» sulle imprese della famiglia Spadafora di San Giovanni in Fiore.

CARTELLO DI IMPRESE

Il gup riconosce la tesi accusatoria di una struttura organizzata, grazie alla creazione di un cartello di imprese (Ferrazzo e Serravalle di Mesoraca e Spadafora e Sacchetta di San Giovanni in Fiore) «operanti in sinergia». Così il gruppo criminale avrebbe potuto disporre di risorse umane, mezzi di trasporto, basi per lo stoccaggio, di una segheria da cui prelevare materiali e, soprattutto, sul collegamento con una centrale a biomasse di proprietà di imprenditori «organici al sodalizio». Nella sentenza si parla di «modalità seriali e standardizzate dei traffici e dei conferimenti del cippato, caratterizzate da ingenti quantità di materiale legnoso misto ad altri rifiuti non tracciabili e dalla sistematica falsificazione dei documenti di trasporto».

Modalità che, sempre secondo la giudice, appaiono indicative di «un accordo fra i partecipanti destinato a durare nel tempo e finalizzato a realizzare in modo continuativo conferimenti alle centrali a biomasse in modo da accrescere il volume di affari».

MONOPOLIO SUGLI APPALTI BOSCHIVI

Regge, al primo vaglio processuale, la tesi del concorso nel reato di traffico illecito di rifiuti, consistente nella ricezione, trasporto e smaltimento di materiale legnoso misto a scarti di segheria e materiale di risulta proveniente da tagli, sfalci e potature abusivi. Ne hanno parlato anche i collaboratori di giustizia. In particolare, Giuseppe Liperoti, ex esponente della cosca Grande Aracri di Cutro, ha affermato che «l’impresa boschiva della famiglia Ferrazzo era strettamente collegata con gli imprenditori Serravalle».

L’impresa Fke sarebbe stata diretta, di fatto, dal boss. «Il controllo delle attività boschive – ha detto il pentito – è uno degli aspetti più fiorenti della consorteria di Mesoraca. I Ferrazzo monopolizzano tutti gli appalti boschivi per il tramite di questa impresa e per il tramite dell’impresa di Carmine Serravalle, titolare di una segheria. I Ferrazzo fanno sì che le imprese si accaparrino tutto il legname necessario per la produzione di cippato da smaltire nelle centrali a biomasse del Crotonese, principalmente quella di Cutro, dapprima di proprietà del Gruppo Macregaglia. Il controllo dei mesorachesi è totale. I Serravalle gestiscono le biomasse di Cutro in nome e per conto di “Topolino”» (nomignolo del boss di Mesoraca, ndr).

INCENDI PILOTATI E IL PIZZINO DEL BOSS UCCISO

Il collaboratore di giustizia ha anche riferito di incendi pilotati e programmati che avrebbero consentito di scaricare nuovo cippato per compensare quello bruciato. Inoltre, si sarebbe potuto lucrare anche sullo smaltimento della cenere che gli incendi avrebbero prodotto sempre mediante ditte controllate dalla ‘ndrangheta. Negli anni scorsi, le tre centrali del Crotonese subirono, in effetti, attacchi dolosi che provocarono danni ingenti. Dichiarazioni, quelle di diversi collaboratori provenienti peraltro da varie articolazioni di ‘ndrangheta, ritenute convergenti dalla giudice. I pentiti hanno maturato una «percezione uniforme del fenomeno criminale e dei suoi protagonisti confermando un’ingerenza durata negli anni fino ad epoca recente».

Nella sentenza vengono evidenziati anche i «dati significativi» emersi dopo l’omicidio di Vincenzo Manfreda, già reggente della cosca dominante nel Petilino, ucciso in un agguato nel marzo 2012. Durante il sopralluogo sulla scena del crimine fatto dai carabinieri, venne rinvenuto nell’auto in uso alla vittima un borsello che conteneva fogli indicanti prezzi di vendita del legname, suddiviso per tipologia e regione di provenienza. Un foglio sottoscritto da alcuni proprietari di ditte boschive, tutti col cognome Serravalle, uno dei quali genero del boss Ferrazzo.

IMPRENDITORI RUSSI NELLA TAVERNETTA

A riprova dell’interesse delle cosche per il settore, la giudice annota anche la trascrizione di un interessante colloquio che il boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, in quegli anni al vertice di una “provincia” di ‘ndrangheta, intrattenne nel 2012 nella ormai famigerata tavernetta monitorata dalle Dda di mezza Italia. «Siamo una murra (folla, ndr)… ho messo nel mezzo crotonesi, mesorachesi, cutresi, per la percentuale, dobbiamo guadagnare tutti quanti, dobbiamo mangiare tutti quanti», diceva il mammasantissima.

Il boss stava pianificando futuri investimenti che avrebbero coinvolto le organizzazioni criminali per la gestione non solo di tagli e conferimenti di biomassa ma anche per il trasporto e lo smistamento di cippato proveniente dall’estero. Durante una perquisizione eseguita nel giorno del suo arresto, il 6 marzo 2013, i carabinieri trovarono a casa del boss Grande Aracri una serie di appunti con i prezzi del cippato importato perfino dalla Russia tramite imprenditori che aveva ricevuto nella sua abitazione. Al loro seguito c’era anche una graziosa interprete che fece girare la testa a qualche uomo del clan.

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