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Udienza del maxi processo Stige

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La Procura generale fa ricorso in Cassazione contro le assoluzioni in Appello legale al sostegno elettorale del clan nel processo Stige. «Fatti travisati»

CIRÒ MARINA – «Ma noi abbiamo votato tutti e due, uno e l’altro?». Giuseppe Farao, il boss ergastolano, capo supremo del “locale” di ‘ndrangheta di Cirò, lo chiedeva alla moglie Assunta, durante un colloquio intercettato in carcere. E la donna faceva sì con la testa. «Pure a Giuseppe nostro? Cosa è, assessore?». La risposta: «520 voti». «È contento allora, il sindaco con la fascia». Ci sono anche questi elementi d’indagine tra quelli valorizzati nel ricorso con cui la Procura generale ha impugnato in Cassazione le assoluzioni emesse dalla Corte d’Appello di Catanzaro, che nel filone rito ordinario del maxi processo Stige ha stravolto la sentenza del Tribunale penale di Crotone. Il riferimento è alla posizione dell’ex sindaco di Cirò Marina Nicodemo Parrilla, peraltro ex presidente della Provincia di Crotone.

IL PROCESSO D’APPELLO DI STIGE FINISCE IN CASSAZIONE

Mentre nel filone processuale celebratosi col rito abbreviato sono ormai passate in giudicato una quarantina di condanne, anche per politici e imprenditori, nel troncone del rito ordinario cadde, in secondo grado, la tesi accusatoria del patto tra politica e clan e quella della cappa mafiosa sull’economia, nonostante lo scioglimento di consigli comunali (a Cirò Marina, Strongoli, Crucoli e Casabona) e diverse interdittive ad aziende. Tra le 27 assoluzioni, a fronte di 26 condanne disposte, spiccano quella dell’ex sindaco di Cirò Marina Nicodemo Parrilla, in primo grado condannato a 13 anni di reclusione, ma anche quella dell’ex sindaco di Strongoli Michele Laurenzano, in primo grado condannato a 8 anni. Ma in Appello venne assolto anche uno dei capi della cosca, Silvio Farao, fratello di Giuseppe, per cui la pena è ormai definitiva nel rito abbreviato. Vediamo perché la Procura generale non ci sta (e impugna 22 assoluzioni).

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LA POSIZIONE DI PARRILLA

A proposito di quel cenno con la testa che la moglie fa al boss detenuto mentre questi chiede conferma se i voti del clan siano andati al politico, la Procura generale si chiede «come si fa ad affermare che il capocosca abbia manifestato non apprezzamento per la figura di Parrilla quale sindaco». Nel ricorso si parla di «ragionamento assolutorio senza un apparato logico». L’assenza di confutazione, per la Procura, si ricava anche dall’«ingerenza della cosca nelle decisioni dell’amministrazione comunale» offerta, per esempio, dall’appalto per la raccolta dei rifiuti solidi urbani. La gestione venne affidata alla Derico che, previa «contrattazione» col capocrimine Nicolino Grande Aracri, boss di Cutro allora al vertice di una “provincia” di ‘ndrangheta, lavorava anche in questa città.

In Appello assolto anche l’imprenditore Antonio Bevilacqua. Ma per la Procura non è stata valutata l’affermazione attribuita a Grande Aracri che dice che l’affare dell’immondizia deve prenderselo lui. Né la denuncia dell’ex sindaco di Cutro Salvatore Migale preoccupato per le assunzioni dei familiari del boss, tra cui il padre del genero Giovanni Abramo.
«Omessa lettura delle risultanze» anche per l’anomalia della procedura di aggiudicazione da cui emerge «la compiacenza del sindaco Parrilla nei confronti dei voleri della cosca».

GIUSEPPE “NOSTRO”

Il pentito Francesco Farao, inoltre, parla despressamente di «accordo» col clan e di «rapporti di amicizia» con i vertici. E ci sono intercettazioni a carico di esponenti di spicco della cosca come Giuseppe Spagnolo che preannunciano di voler incontrare la Giunta per perorare assunzioni subito dopo il voto. “Giuseppe nostro”, peraltro, è il super assessore ai Lavori pubblici Giuseppe Berardi, imparentato coi vertici del sodalizio e del quale Parrilla avrebbe favorito l’ascesa su indicazione della cosca.
Ma su questo e altri elementi la Corte «nulla deduce», poiché «la tematica del sostegno elettorale è stata travisata». Compresa la campagna elettorale “porta a porta” che emerge da captazioni e rivelazioni.

STIGE, LA POSIZIONE DI LAURENZANO TRA I MOTIVI DEL RICORSO IN CASSAZIONE

«Fuorviante», per la Procura, anche la selezione dei materiali che hanno portato all’assoluzione dell’ex sindaco di Strongoli Michele Laurenzano, ex enfant prodige del Pd. Una posizione da leggere insieme quella dell’ex vigile urbano Francesco Capalbo, anche lui assolto in Appello. La «volontà del sindaco di accedere al dialogo con la cosca» con riferimento al piano spiaggia e alla problematica di un chiosco sequestrato emerge da una «notevole mole di dati captativi» intercettati nell’auto di Capalbo a bordo della quale i due erano spesso insieme.
Tanto più che «il sindaco dopo aver appreso da Capalbo del l’«imminente uscita dal carcere del capocosca Salvatore Giglio concorda col vigile di andarlo a trovare e rassicurare circa la disponibilità e vicinanza agli interessi del sodalizio criminale». Laurenzano verrebbe intercettato anche mentre “sollecitava” uffici comunali affinché ai Giglio venisse concessa l’autorizzazione per il chiosco «in violazione della normativa antimafia».

LA POSIZIONE DI SILVIO FARAO

L’accusa contesta, tra l’altro, l’assoluzione in Appello di Silvio Farao nonostante dal dibattimento sia emerso che «pur dalla latitanza avesse un ruolo apicale nel sodalizio, come riferito dal figlio Vittorio allo zio Giuseppe nei colloqui carcerari laddove fanno riferimento agli ordini provenienti dal padre e agli incontri che lui e i cugini riuscivano a ottenere». Lo zio Giuseppe, il capo supremo, ammoniva, infatti, i nipoti «affinché prestassero massima cautela e limitassero il più possibile le visite». Ma delle visite al latitante parla anche il pentito Francesco Farao. Soprattutto quando c’era da prendere «decisioni importanti», con riferimento agli omicidi da deliberare, Silvio Farao, nonostante fosse uccel di bosco, ai summit riusciva a partecipare anche in Lombardia. Anche insieme al «gotha della ‘ndrangheta lombarda».

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