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Una delle linee di prodotto commercializzate dal clan in Germania

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Nelle motivazioni della sentenza Stige documentate l’infiltrazione dei Farao in Germania attraverso l’imposizione del vino ai ristoratori italiani


CIRÒ MARINA – «Compare, voi siete il padrone, sono pavido e pallido ai vostri ordini». Sono alcune delle espressioni di deferenza dell’imprenditore Pasquale Malena, titolare dell’omonima cantina vinicola, valorizzate dalla Corte d’Appello di Catanzaro nelle motivazioni della sentenza d’appello del processo Stige (filone del rito ordinario) che documentano l’infiltrazione del “locale” di ‘ndrangheta di Cirò in Germania attraverso l’imposizione del vino ai ristoratori italiani. L’interlocutore era Vittorio Farao, figlio di Silvio, uno dei capi del clan peraltro assolto. Vittorio Farao, nel troncone del rito abbreviato, è stato, invece, condannato in via definitiva a 20 anni di reclusione; Malena a 7 anni in Appello nel rito ordinario.

I giudici di secondo grado rilevano, da un gruppo di intercettazioni, «la crescente ingerenza dei Farao nella gestione delle attività, con un grado di padronanza e confidenza che va al di là del ruolo di semplici procacciatori di affari». La «consapevolezza» delle modalità con cui avveniva la vendita, grazie alla «forza persuasiva» delle persone a cui si era rivolto, i giudici la desumono dalla personale partecipazione dell’imprenditore ai viaggi in Germania insieme ai Farao e all’apertura di «un canale proficuo», oltre che da «un’intromissione sempre più estesa nelle decisioni operative» fatta di contatti dei plenipotenziari del clan con la segretaria, i fornitori, l’organizzazione delle spedizioni.

E quali erano le modalità della vendita? Sul punto è stato chiaro il pentito Francesco Farao, figlio del boss Giuseppe (condannato a 24 anni) e fratello di Vincenzo (14 anni). Il collaboratore di giustizia ha precisato come «nessuno potesse rifiutare il vino offerto dai soggetti vicini alla cosca», è detto nella sentenza, che riporta uno stralcio delle rivelazioni: «quando chiedevano di acquistare il vino, nessuno rifiutava perché non volevano avere discussioni, si accontentavano di pagare una merce che non serviva a nulla però volevano stare tranquilli, non si volevano mettere contro».

Gli stessi affiliati pare fossero consapevoli della scarsa qualità del prodotto. Vincenzo Farao dice a un certo punto: «digli che il vino fa schifo, l’ho sentito con le mie orecchie, tutti si lamentano». Ma l’imprenditore «se ne lavava le mani perché incassava ugualmente», aggiunge il pentito. Del resto, come commentavano alcuni ristoratori, sul camioncino della distribuzione c’è la scritta “o compri o compri”. Affermazioni da cui i giudici ricavano l’«assoggettamento diffuso» ma anche la «perfetta inutilità» delle resistenze del ristoratore che, a fronte della scarsa qualità del prodotto, «non ha altra scelta se non quella di tenere il vino e provare a rivenderlo».

Una «posizione molto diversa» è quella di un altro imprenditore vinicolo, Valentino Zito. Nel primo caso gli esponenti del sodalizio che distribuivano il vino erano Giuseppe Sestito e Giuseppe Spagnolo, i “plenipotenziari” del clan. Nel secondo erano «meri acquirenti di due linee di vino prodotte per loro conto». Significativi i nomi dei prodotti: “Zu Lorenzo”, dal nome del padre di Sestito, e Desiree, dal nome della figlia di Spagnolo. Per i giudici di Appello, che hanno assolto Zito ribaltando una condanna a 12 anni, «il rapporto si è esaurito con la produzione e la vendita delle due etichette rimaste quasi per intero non pagate». Anzi, nel caso di Spagnolo, «oltre a non pagare nulla» l’imprenditore «ha dovuto anche sopportare l’esborso di 2500 euro per indennizzare l’acquirente in quanto il vino, ritirato e mai pagato, non era risultato di suo gradimento».

Insomma, la cantina dei fratelli Zito non traeva vantaggi, in quanto dal dibattimento sarebbe smentito che il clan riscuotesse crediti per loro conto, ma si limitava a vendere linee di prodotto «non prendendo parte alla distribuzione e senza accordi sui margini sugli utili».

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