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Il pentito crotonese Foschini prese parte ai summit di ‘ndrangheta sull’omicidio Mormile «su indicazione di due funzionari» dei servizi segreti deviati


È soprattutto il pentito crotonese Vittorio Foschini a tratteggiare quello scenario inquietante che porta a ritenere che l’uccisione di Umberto Mormile sia riconducibile a «un oscuro, ma verosimilmente ormai disvelato, intreccio di poteri e di precari equilibri tra forze solo apparentemente antitetiche». Perché Foschini era «perfettamente consapevole», avendo partecipato al summit dei coimputati, che la rivendicazione del delitto da parte della sedicente “Falange armata carceraria” dovesse servire a «depistare le indagini, creando la falsa ipotesi di un delitto di natura terroristica».

Lo mette nero su bianco la gup del Tribunale di Milano Marta Pollicino nelle motivazioni della condanna a sette anni di reclusione ciascuno ai collaboratori di giustizia Vittorio Foschini e Salvatore Pace per il concorso nell’omicidio dell’educatore penitenziario del carcere di Opera assassinato l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel Milanese. Foschini e Pace, rei confessi, si sarebbero messi a disposizione dei mandanti dell’omicidio fornendo armi e mezzi al killer Antonio Schettini che, dal sellino di una moto guidata da Nino Cuzzola, sparò colpendo per sei volte Mormile. Ma le rivelazioni di Foschini convergono con quelle degli altri pentiti acquisite nel procedimento.

L’OMICIDIO DI UMBERTO MORMILE, LA ‘NDRANGHETA E I SERVIZI SEGRETI DEVIATI

«Certo è che la prospettazione “alternativa” sulla verità dei fatti, come quella prospettata dal Cuzzola», secondo la quale Mormile fu ucciso perché a conoscenza dei rapporti tra il boss Domenico Papalia e i Servizi segreti, «non appare, certamente, irragionevole. Ed anzi nella sua lineare coerenza, e nel narrato, ripetitivo e costante nel tempo del dichiarante, è forse quella, tra le varie prospettabili e prospettate, che appare maggiormente in linea con la ricostruzione del profilo “carcerario” della vicenda, e con i dati, quelli sì “univoci”, traibili sulla vita professionale dell’educatore Mormile». Tuttavia – ha precisato la giudice – «sono ormai decorsi più di trenta anni dall’omicidio. Risulta obiettivamente difficile e, come più volte evidenziato, anche ultroneo, rispetto ai concreti fini del decidere di questo procedimento, individuare la reale causale omicidiaria».

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Quanto è stato difficile, per i familiari della vittima, misurarsi con la «crudele impossibilità di addivenire ad una verità piena in ragione delle inestirpabili ombre oscure avvolgenti il movente», scrive la giudice nel ricostruire il contesto in cui è maturato il primo delitto rivendicato dalla misteriosa sigla “Falange Armata”, utilizzata dalle mafie nell’ambito della strategia stragista ma riconducibile a una componente deviata dei Servizi segreti e a un progetto eversivo. Quanto dev’essere stato difficile compiere un viaggio a ritroso nel tempo attraversando gli anni più bui della storia repubblicana per compiere “indagini parallele”. Dopo le condanne in via definitiva dei boss della ‘ndrangheta Domenico e Antonio Papalia come mandanti e di Antonio Schettini e Nino Cuzzola quali esecutori materiali, gli ultimi due rei confessi, dunque, un altro importante tassello si aggiunge.

LA RICOSTRUZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE DELL’OMICIDIO

L’impianto accusatorio recepisce l’ipotesi sostenuta dalla Dda milanese ma anche dall’avvocato Fabio Repici, che rappresenta i fratelli della vittima, Nunzia e Stefano, e la figlia Daniela, costituiti parte civile. Una tesi che vede al centro Pace come capo del gruppo criminale che si sarebbe messo a disposizione dei boss Franco Coco Trovato e Domenico Papalia, i capi della ‘ndrangheta lombarda, fornendo supporto logistico nella fase preparatoria dell’omicidio. Pace, in particolare, avrebbe fatto consegnare da esponenti del suo gruppo armi e una moto per eseguire il delitto.

Il ruolo di Foschini, ex braccio destro di Coco Trovato, sarebbe stato, invece, quello di avere dato disposizioni ai sodali perché fornissero l’auto e una moto ai killer. Ai familiari della vittima la giudice ha riconosciuto una provvisionale di risarcimento di 100 mila euro ciascuno ma questo non li ripagherà del «vuoto esistenziale determinato dall’assenza, inspiegabile, e forse ancora oggi non pienamente spiegata, del loro congiunto».

L’OMICIDIO DI MORMILE, LA ‘NDRANGHETA STRAGISTA, IL TENTATIVO DI CORRUZIONE E QUELLA FRASE: «IO NON SONO DEI SERVIZI»

I killer uccisero Mormile sulla strada provinciale Binasco-Melegnano mentre si recava al lavoro. Da una moto Honda “600” che affiancò la sua auto Alfa Romeo “33” i sicari spararono sei colpi con una calibro 38 special. L’omicidio venne rivendicato all’Ansa di Bologna dalla Falange Armata. Sigla utilizzata anche per depistare le indagini sugli attentati ai carabinieri in Calabria nell’ambito di una strategia volta ad impedire che fossero immediatamente ricondotti alle mafie.
Un filone d’indagine si intreccia con l’inchiesta della Dda di Reggio Calabria sulla ‘ndrangheta stragista.

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È proprio Foschini a ricostruire la “questione Mormile” «sin dalle origini», in un arco temporale riconducibile a un paio di mesi prima dell’omicidio. Domenico Papalia non riusciva più ad avere permessi carcerari, di cui fino a quel momento aveva fruito, dopo l’intervento di Mormile che relazionò sui suoi rapporti continuativi con la ‘ndrangheta. Mormile, spiega il collaboratore di giustizia crotonese, fu avvicinato fuori dal carcere da Antonio Papalia, fratello del detenuto, e rifiutò una lauta ricompensa – 30 milioni di ex lire – perché fosse più accondiscendente. Nel respingere in maniera secca il tentativo di corruzione, Mormile, racconta Foschini, disse ad alta voce che lui “non era dei Servizi”. Ecco perché nelle sue dichiarazioni Foschini fa più volte riferimento al coinvolgimento dei Servizi, dalla proposta corruttiva alla deliberazione del delitto con la sigla di “Falange armata carceraria”.

IL PENTITO DI ‘NDRANGHETA FOSCHINI RIBADISCE «LA PIENA CONSAPEVOLEZZA» DEL COINVOLGIMENTO DEI SERVIZI DEVIATI NELL’OMICIDIO MORMILE

Mentre di Pace la giudice scrive che non apprende mai direttamente del coinvolgimento dei Servizi, per il suo ruolo non apicale nell’organizzazione criminale, di Foschini sottolinea la «piena consapevolezza» avendo egli partecipato a due riunioni preliminari. La prima si era tenuta ad Airuno, presso il ristorante del boss Coco Trovato di cui Foschini era uno degli uomini più fidati, circa 20 giorni prima del delitto. Antonio Papalia informa i partecipanti al summit (al quale è presente anche Pace) di un incontro con due funzionari dei servizi segreti che erano soliti curare anche i rapporti col fratello Domenico all’interno del carcere e che pertanto erano venuti a conoscenza della “questione Mormile”.

I funzionari avrebbero pertanto indicato a Papalia la via corruttiva e l’eliminazione dell’educatore penitenziario in caso di rifiuto. La seconda riunione si tenne a Limbiate, due, forse tre giorni prima del delitto. Antonio Papalia comunicava ai partecipanti la decisione di uccidere Mormile, individuando gli esecutori materiali in Schettini e Cuzzola. Coco trovato, “capo diretto” di Foschini, assicurava apporto logistico fornendo macchine e moto di cui chiedeva a Foschini la materiale disponibilità. Foschini, in particolare, consegnò la moto ai killer e individuò il telefonista in Schettini, che accompagnò alla cabina telefonica da cui partì la famigerata telefonata all’Ansa di Bologna per rivendicare l’omicidio.

LA RAGIONI ALLA BASE DEL MOVENTE

Duplici le ragioni del movente. Da un lato, Foschini sostiene che il delitto fu “ordinato” dai Servizi perché Mormile “faceva relazioni negative” nei confronti di Domenico Papalia ostacolando la concessione di benefici penitenziari nei suoi confronti. Più “pregnante”, è detto sempre nelle motivazioni della sentenza, l’altra ragione, legata alla circostanza, «pericolosissima per gli stessi Papalia», che Mormile avesse scoperto «i rapporti ambigui che Domenico Papalia aveva all’interno del carcere con i Servizi segreti».

In particolare, Foschini precisa che la “scoperta” di Mormile «costituiva un grosso problema ed era fonte di grande preoccupazione non solo per i Papalia ma anche per i servizi segreti e per la famiglia Barbaro. Anche questi ultimi avevano rapporti con i Servizi ed erano stati coinvolti nell’accordo». Un accordo che prevedeva che le due famiglie di ‘ndrangheta «non avrebbero più fatto sequestri in Calabria, in cambio i Servizi li avrebbero agevolati o comunque protetti per altri aspetti, ad esempio quelli dei latitanti».
Ecco l’intreccio oscuro di forze “apparentemente antitetiche” su cui ancora bisogna fare luce.

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