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Alfonso Mannolo

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Depositate le motivazioni della sentenza “Malapianta” contro i Mannolo di Cutro, per i giudici il clan era ossessionato dalle indagini. Gli affiliati parlavano a bassa voce perfino in casa

CUTRO – «Indubitabile riscontro». È quello che, secondo la Corte d’Appello di Catanzaro, hanno fornito sedici collaboratori di giustizia le cui testimonianze sono confluite nel processo scaturito dall’inchiesta che portò alle operazioni Malapianta e Infectio. Inchieste con cui è stata affermata l’operatività di un “locale” di ‘ndrangheta a San Leonardo di Cutro. Attivo «già prima degli anni Novanta» e «funzionalmente dipendente» alla “provincia” mafiosa capeggiata dal capocrimine ergastolano Nicolino Grande Aracri.

Depositate le motivazioni della sentenza con cui, nell’ottobre scorso, furono disposte 18 condanne, di cui 14 rideterminate ma per posizioni minori e in gran parte frutto di concordato. Confermati i 30 anni di reclusione inflitti al capobastone Alfonso Mannolo ma anche i 19 anni comminati al figlio Remo. Nel maggio scorso, la Corte d’Appello di Catanzaro dispose peraltro pene per 270 anni nel troncone processuale svoltosi col rito abbreviato.

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Ai pentiti «storici», come li definiscono i giudici nelle 318 pagine della sentenza di secondo grado del rito ordinario, storici nel senso che, sentiti anche nell’ambito di altri procedimenti, hanno contribuito alla ricostruzione dell’organigramma del clan, si è aggiunto, «in termini di rilevante novità», il figlio del boss, Dante Mannolo (che ha scelto il rito abbreviato). Il quale ha riferito degli assetti della cosca per averne fatto parte dal 2009, data in cui avviene la “riforma” delle famiglie di ‘ndrangheta stanziate nella frazione cutrese, Mannolo, Trapasso, Zoffreo, Falcone. Prima di quella data era il padre Alfonso il caposocietà di San Leonardo e le altre famiglie appartenevano alla ‘ndrangheta di Isola Capo Rizzuto.

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Ma dopo una riunione tenutasi a casa dello zio Leonardo, ha raccontato il pentito, le altre famiglie entrarono a far parte della “società” sanleonardese. Il cui core business sarebbe stato il racket sui villaggi turistici di una vasta fetta di costa jonica. Oltre al narcotraffico che, come acclarato dal processo, era diretto da Mario Mannolo che versava una quota nella “bacinella” del clan. L’operatività della cosca si desume, sempre secondo i giudici, anche dalle molteplici captazioni telematiche sul telefono cellulare di Remo Mannolo, che apre tutto un mondo agli inquirenti. «Qua siamo tutti a rischio». Diceva Remo Mannolo, dopo aver appreso di imminenti blitz antimafia alla vigilia dell’operazione Stige, che nel gennaio 2018 colpì il “locale” di Cirò.

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«Vi è prova – è detto ancora in sentenza – della costante ricerca da parte dei componenti della famiglia Mannolo di informazioni su possibili indagini pendenti a loro carico. Ossessionati dal fatto che potessero essere attenzionati dalla magistratura, palesemente preoccupati e agitati per il fatto che imminenti operazioni di polizia potessero colpirli». Da qui l’adozione di una serie di cautele in quanto boss e affiliati si mostrano «attenti e parsimoniosi nell’utilizzo di apparecchi telefonici. Cauti nell’intrattenimento di conversazioni o nelle relazioni. Spesso nelle interlocuzioni – è detto ancora – adoperavano toni sommessi, al limite della percezione uditiva, a che quando il dialogo avveniva in luoghi domestici». Dalle intercettazioni viene fuori anche un sistema di alleanze, focalizzate dalle intercettazioni soprattutto in occasione dei regali per le festività natalizie, con omaggi ai detenuti e alle loro famiglie e la consegna di “prosciutti e vino” o di somme di denaro alle cosche del comprensorio.

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Le dichiarazioni del pentito Mannolo vanno peraltro a rafforzare il racconto «preciso, lineare e coerente» del testimone di giustizia lametino Giovanni Notarianni. L’imprenditore proprietario del villaggio Porto Kaleo, vessato per un ventennio dalla cosca Mannolo. Ma anche dal boss Grande Aracri, finito in carcere (da allora non è più uscito) nel 2013 proprio in seguito alle denunce del titolare della struttura turistica sull’irruzione del capocrimine munito di jammer che inibiva le intercettazioni (la famigerata “scatola nera”). Il sistema impositivo di estorsioni era, infatti, «condiviso tra le cosche cutresi». Come raccontano anche altri pentiti, in particolare Salvatore Cortese, che ha svelato che il 50 per cento del racket sui villaggi andava a Grande Aracri.

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