Una centrale a biomasse
3 minuti per la letturaMESORACA (CROTONE) – Stralciato il filone della truffa al Gestore energetico nell’ambito dell’inchiesta che avrebbe reciso i tentacoli della cosca Ferrazzo di Mesoraca sulla centrale a biomasse di Cutro, già di proprietà del gruppo Marcegaglia ma rilevata nel 2015 dalla famiglia Serravalle, a quanto pare molto vicina al clan (anche se così non la pensa la Corte di Cassazione che ha annullato varie misure cautelari).
La Dda di Catanzaro non procede, per il momento, nei confronti di rappresentanti legali e proprietari degli impianti Enel Mercure, Biomasse Italia e Biomasse Crotone, Ecosesto che, secondo l’originaria impostazione accusatoria, avrebbero indotto in errore i rappresentanti del Gse in ordine ai reali dati di produzione di energia elettrica, giacché certificavano, falsamente, che sarebbe stato utilizzato chips di legno vergine o comunque incentivabile con il massimo del coefficiente.
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E così gli indagati ai quali è stato notificato l’avviso di conclusione dell’inchiesta sono 98 rispetto ai 111 dello schema dell’ordinanza di custodia cautelare scattata nell’ottobre scorso, quando venne fuori che a controllare l’affaire delle biomasse sarebbe stata la ‘ndrangheta, che disboscava la Sila con tagli intensivi e conferiva di tutto nelle centrali, dalla spazzatura al catrame ai copertoni, con danni devastanti per l’ambiente. Le accuse, a vario titolo, sono di associazione mafiosa, traffico illecito di rifiuti, estorsioni, turbativa d’asta, reati in materia di stupefacenti, ma c’è anche il filone del concorso esterno in associazione mafiosa, in relazione al quale la Dda aveva chiesto l’arresto dell’ex comandante della Stazione dei carabinieri forestali di Petilia Policastro Costantino Calaminici.
La cosca guidata dal boss di Mesoraca era comunque al centro delle indagini condotte dai carabinieri del Comando provinciale di Crotone e dai loro colleghi del Ros e del Nipaf di Cosenza che dal 2014 lavoravano ai fianchi la consorteria criminale. Un mix di investigazione moderna e classica, perché sul territorio c’erano i militari della Compagnia di Petilia Policastro a svolgere servizi di osservazione e pedinamento. Così sarebbe venuto fuori che la cosca, grazie anche all’apporto fornito dall’ex sindaco Foresta (nel frattempo negli scorsi mesi deceduto e pertanto non perseguibile, ndr), turbava, almeno secondo l’accusa, appalti, vessava con estorsioni imprenditori e commercianti, gestiva le piazze dello spaccio a Mesoraca e Petilia Policastro e, soprattutto, aveva imponenti interessi nell’indotto economico costituito dall’area boschiva silana delle province di Crotone e Catanzaro. Tant’è che molti degli indagati risultano titolari di aziende di settore, che operano nel taglio e nella lavorazione del materiale legnoso, che veniva conferito, successivamente, alle centrali a biomasse, di Cutro e a quelle di Crotone e Strongoli di Biomasse Italia.
In questo contesto, come già emerso nel corso dell’inchiesta Stige, è balzato all’attenzione degli inquirenti il ruolo di un cartello di imprese dominanti nel comparto boschivo, Ferrazzo e Serravalle di Mesoraca, Spadafora di san Giovanni in Fiore e Sacchetta di Rogliano, e sarebbe stata fatta luce su un regime di sostanziale monopolio che consentiva alle ditte controllate dal clan di perpetrare in maniera sistematica operazioni di taglio non autorizzate, difformi alle norme di settore e comunque pericolose per l’ambiente, e conferire alle centrali di mezza Calabria un cippato non tracciabile e pertanto da considerarsi a tutti gli effetti un “rifiuto”. Ciò grazie all’ausilio, secondo l’accusa, di tecnici agronomi, operatori e funzionari delle centrali investiti delle mansioni di controllo della qualità del prodotto conferito e della regolarità delle documentazioni, con conseguente ingiusto profitto non solo per le imprese boschive collegate alle organizzazioni criminali.
Il profitto, sempre secondo l’originaria impostazione accusatoria, sarebbe stato anche per le società che indebitamente percepivano dal Gse incentivi maggiorati perché appunto basati su conferimenti difformi alla normativa di settore e di scarsa qualità poiché derivante da tagli non autorizzati, ma per questo filone per ora non si procede. Intanto, mentre la Dda faceva notificare l’avviso di conclusione dele indagini, la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, accogliendo l’istanza dell’avvocato Aldo Truncè, annullava con rinvio la misura in carcere per l’indagato Vincenzo Mantia, ritenuto tra i promotori dell’associazione mafiosa.
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