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Nicolino Grande Aracri

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CUTRO (KR) – Restano soltanto capannoni di aziende fantasma, scheletri di uno sviluppo mai decollato, nell’area industriale di Cutro, quella su cui avevano messo le mani gli imprenditori predoni del Nord che si sono mossi all’insegna del motto “Prendi i soldi e scappa”, anche se Woody Allen non c’entra perché il malloppo da sgraffignare erano le sovvenzioni pubbliche.

Ma oggi sappiamo un pezzo di verità in più, almeno quella che raccontano i pentiti. Sul polo industriale di Cutro, su cui piovevano i fondi del Contratto d’area, di una sovvenzione globale e della legge 488, si erano allungati anche i tentacoli del boss Nicolino Grande Aracri, che aveva la sua «punta di diamante» in Pasquale Barberio, imprenditore lametino ed ex corridore di auto, imputato nel filone del processo Farma Business che si sta celebrando dinanzi al Tribunale penale di Crotone.

Parola di Salvatore Cortese, ex braccio destro del super boss, che, collegato in videoconferenza, incalzato dal pm Antimafia Domenico Guarascio, ma anche dai difensori, gli avvocati Giuseppe Fonte e Pietro Funaro, ha rievocato i tempi in cui, sul finire degli anni Novanta, quando stava prendendo forma il Contratto d’area di Crotone che prevedeva proprio a Cutro gli investimenti più consistenti, colui che «costruiva tutte le fabbrichette era Barberio, ma prima pagava la ‘ndrangheta e inoltre era un riciclatore».

Cortese è un fiume in piena. «Faceva un sacco di viaggi a Roma, Barberio, aveva agganci, sapeva quando arrivavano i soldi per gli stati d’avanzamento, era l’anello di congiunzione col mondo politico e istituzionale e seguì quasi tutti i lavori nell’area industriale. In base a quanto prendevano, gli imprenditori ci dovevano pagare e lui era un tipo capace di infiltrarsi, il massimo per la ‘ndrangheta, il cui problema non è la liquidità, perché di soldi è piena, il problema è riciclare e Grande Aracri investiva denari sporchi tramite lui».

Un altro tassello lo ha aggiunto il pentito Giuseppe Liperoti. Sarebbe stato Barberio, insieme a Pino Colacino, morto qualche anno fa ma in passato «affarista della cosca» (come conferma l’impianto della sentenza Scacco Matto), a concordare con i proprietari il prezzo per l’esproprio dei terreni su cui dovevano sorgere i capannoni industriali. Barberio li costruiva, ma la “regia”, sempre secondo il pentito, era del boss che doveva avere un «margine» (cioè una tangente, i pentiti parlano del 4 e del 5 per cento), dall’esecuzione dei lavori oltre che dall’acquisto dei terreni.

«Barberio non era l’imprenditore estorto, era imprenditore per conto della cosca, non andava col fucile nel cantiere, il suo profitto consisteva nell’eseguire i lavori ma doveva consentire un margine alla cosca, era in affari con Grande Aracri, lo accompagnavo io con la mia auto dal boss anche di notte».

Una cosa che ancora nessun’inchiesta ha chiarito è se gli imprenditori-predoni del Nord fossero in combutta col clan che mediava coi proprietari terrieri per l’acquisizione di aree su cui programmare investimenti che in gran parte non hanno portato lavoro perché, arraffati i contributi pubblici, dopo l’inaugurazione della prima, preziosa pietra, i beneficiari degli aiuti sparivano. Ma questa è un’altra storia.

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