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COTRONEI (CROTONE) – «Quanto ci ho messo a far accendere un fiammifero? Ventiquattro ore ci ho messo… non mi facessero girare i c…». Per risolvere i dissidi con la sorella Marcella, l’imprenditore della sanità Robert Oliveti non avrebbe esitato a rivolgersi a Nicola Comberiati, figlio di Vincenzo, il boss di Petilia Policastro, peraltro dipendente della Rsa per disabili di cui lui è direttore sanitario. L’obiettivo era la gestione esclusiva della struttura residenziale “Santino Covelli”.
È un presunto tentativo di estorsione la vicenda al centro di un’inchiesta, coordinata dai pm della Dda di Catanzaro Domenico Guarascio, Pasquale Mandolfino e Paolo Sirleo e condotta dai carabinieri della Compagnia di Petilia Policastro, che ha portato a sei arresti (LEGGI LA NOTIZIA). In carcere sono finiti Nicola Comberiati, di 39 anni, di Petilia; Pietro Curcio (39), di Petilia; Robert Oliveti (66), di Cotronei; ai domiciliari Younes El Kharchi (38), originario del Marocco ma residente a Petilia; Marianna Poerio, moglie di Oliveti (48), di Cotronei; Salvatore Rachieli (65), di Cotronei.
Fratello e sorella sono soci dell’impresa “Centri Assistenziali Mons. Oliveti s.r.l.”, esercente a Cotronei l’attività di gestione delle strutture residenziali per disabili “Carusa”, “Spirito Santo” e “Santino Covelli” (la cui amministrazione è affidata alla Correnti srl con sede a Roma). Oliveti quale mandante, la moglie quale concorrente morale e Comberiati in veste di esecutore materiale, stando alla ricostruzione accusatoria avvalorata dal gip distrettuale Antonio Battaglia in un’ordinanza di custodia cautelare, avrebbero concorso nell’incendio dell’auto Fiat “600” di un’educatrice, stretta collaboratrice di Marcella Oliveti, per costringere quest’ultima a cedere a pretese divisorie e spogliarla delle proprie spettanze.
Si sentiva il padrone del territorio, il figlio del boss. «Tanto io mi prendo tutto», diceva. Ci sono anche accuse di estorsione, come quella contestata a Comberiati (e a Curcio, El Kharchi e Rachieli), che si sarebbe accaparrato un’auto Alfa Romeo “Stelvio” con metodi minacciosi, impedendo una trattativa privata; di violenza privata, perché il figlio del boss irrompeva all’hotel National Park di Trepidò pretendendo di parlare col titolare, Armando Scalise, e replicando alla responsabile della struttura ricettiva “’Sti pisciari di Crotone devono venire a comandare a casa mia”; di usura ai danni di un’avvocatessa che versava in difficoltà economiche.
A far scattare l’inchiesta è però l’incendio dell’auto. La conversazione nel corso della quale Oliveti parlava con la moglie, che pure lo metteva in guardia da eventuali intercettazioni – «amore, dillo ad alta voce in macchina» – è una sorta di confessione, dal punto di vista degli inquirenti. «Quanto ci ho messo a fare accendere un fiammifero?». E quando la moglie lo invita a diffidare del figlio del boss, additandolo come l’autore di un incendio di un uliveto, il ds della clinica replica: « Nicola mi è stato affidato dal padre, lui non può tradire il padre». E ancora: «io vado e gli brucio il c… no la macchina …. se mi girano i c… io mi regolo quello che devo fare e quello che non devo fare… che su queste cose non mi faccio influenzare neanche da te».
Gli attriti per la suddivisione del patrimonio erano così forti da indurre l’uomo, forse fomentato dalla moglie, a puntare a una definitiva indipendenza economica e gestionale. Ma è la sorella dell’indagato a confermare agli inquirenti che l’unica chiave di lettura possibile dell’episodio intimidatorio erano i litigi col fratello che peraltro aveva un rapporto di amicizia con Comberiati, impiegato nelle aziende della famiglia da quando era ancora in vita il fondatore delle cliniche, monsignor Oliveti. E poi c’era il terrore dell’educatrice, che, anche lei convinta che con l’incendio dell’auto si volesse dare un “segnale” a Marcella Oliveti, temeva di poter subire ulteriori atti intimidatori. Un’ipotesi non peregrina perché dalle intercettazioni è venuto fuori che Roberto Oliveti, la moglie e Comberiati si sarebbero accordati per appostarsi presso l’abitazione dell’educatrice, addirittura, per smantellare con una mazza una delle telecamere di cui la casa era dotata.
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