Un capannone incendiato (repertorio)
3 minuti per la letturaSTRONGOLI (KR) – Si erano rimessi all’opera, dopo l’arresto del boss Salvatore Giglio nell’operazione “Stige”, e il riassetto della ‘ndrina di Strongoli passava per il ripristino del racket della paglia con intimidazioni pesanti agli imprenditori agricoli, così intimoriti che erano restii a denunciare.
Sarebbero stati Luigi Lettieri e Gaetano Mammolenti, tra gli arrestati nell’operazione “Ultimo Atto”, ennesima offensiva della Dda di Catanzaro contro il “locale” di Cirò, al quale la cosca strongolese è storicamente collegata, in assenza del capo bastone detenuto, a reggere le fila della consorteria criminale.
Per dare un’idea di quanto fosse asfissiante il controllo del territorio attuato dai nuovi vertici della ‘ndrina basta rievocare i danneggiamenti subiti da alcune aziende agricole nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2018, pochi mesi dopo l’operazione “Stige”. In particolare, presso i terreni di Mario Perrotta e Pietro De Diego fu distrutto un capannone di 200 metri quadrati all’interno del quale, completamente arsi delle fiamme, i carabinieri rinvenirono un mezzo per la raccolta dei pomodori, un altro mezzo raccogli bietole, un atomizzatore, una fresa interfilare, uno spedo a scatto, due compressori, un muletto, otto quintali di semina da fagiolini, due binze in plastica. Attrezzature in piena efficienza, per cui l’autocombustione apparve subito da escludere.
Nella stessa notte, venne incendiata la motopompa di Pasqualino Giuseppe Piscitelli che peraltro venne pure colpita a mazzate. Sempre nella mattinata del 18 maggio, Salvatore Nigro, anche lui conduttore di fondi agricoli, denunciò il danneggiamento di una motopompa di irrigazione. Appariva, dunque, evidente che era in atto, nel territorio di Strongoli, un tentativo di estorsione ai danni di diversi proprietari terrieri, i quali, per evidente timore, o erano restii a sporgere formale denuncia o addirittura non lo fecero (e comunque nulla di rilevante sarebbero stati in grado di riferire agli inquirenti).
Essendo evidente il clima di tensione e terrore che attanagliava gli imprenditori, i carabinieri hanno avviato attività di intercettazione telefonica dalle quali sarebbe subito emerso che le vittime affermavano di sapere chi aveva compiuto i danneggiamenti ma non potevano denunciarli, aggiungendo che da quando era stato arrestato il capo cosca la situazione era ormai questa. Eppure i danni erano ingenti. «Perché paradossalmente col fatto che hanno arrestato il capomafia e compagnia bella…c’è una lotta fra loro, forse i predominanti…però mi hanno creato un danno di 100mila euro».
«Fin troppo ovvio», annotano i pm Antimafia nelle carte dell’inchiesta, che il riferimento fosse all’arresto di Giglio. Dalle intercettazioni venne fuori che, proprio in quei giorni, Lettieri aveva inviato suo figlio in uno dei fondi delle vittime a riempire un intero furgone di meloni come se fosse il padrone. «Ma poi ne ha presi assai…è venuto qua col camion…ne ha presi altri tre o quattro…c’erano due che raccoglievano». Un atto di prepotenza che faceva il pari con la raccolta con successiva vendita della paglia (paglia che in parte era stata ceduta dalle vittime di danneggiamento). Era già emerso dall’inchiesta Stige che il boss Giglio si era insediato nel settore commerciale della lavorazione del fieno vessando gli imprenditori agricoli.
L’attività sarebbe proseguita anche dopo il suo arresto, dunque. Se ne sarebbe occupato, in questo caso, Mammolenti con suoi uomini di fiducia. «Io ho tutti i fondi scritti perché devo dare conto», diceva, con riferimento agli appunti su un apposito blocchetto del quantitativo di paglia e dei nomi dei proprietari terrieri da cui la paglia era stata prelevata, e quindi dei relativi guadagni.
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