Raffaele Todaro
2 minuti per la letturaCUTRO – Raffaele Todaro, il genero del boss Antonio Dragone, doveva essere ucciso. Almeno questo direbbe in una conversazione intercettata nell’agosto 2020 il figlio Giuseppe. Un progetto ordito dalla cosca rivale dei Grande Aracri che nel 2022 non sarebbe andato a segno per una circostanza fortuita.
C’è anche questo nelle carte dell’inchiesta della Dda di Brescia che l’altra notte ha portato all’operazione “Sisma”, con cui sarebbe stato svelato uno schema criminoso che consentiva alle imprese di famiglia dei Todaro di lucrare sui lavori post sisma nel Mantovano.
Il rup dei Comuni consorziati del cosiddetto cratere sismico era, infatti, l’architetto Giuseppe Todaro, che avrebbe imposto che il contributo pubblico venisse elargito ai richiedenti solo a condizione che costoro affidassero i lavori di ricostruzione alle società facenti capo a lui o a suo padre.
Ma perché Todaro doveva essere ucciso? Il progetto, emerge dalle carte dell’inchiesta, era «finalizzato ad annientare le ultime propaggini operative del clan Dragone mediante la soppressione di un soggetto che, da un lato, si occupava delle proiezioni economico-finanziarie dell’attività del sodalizio e, dall’altro, fungeva da cinghia di trasmissione tra gli appartenenti all’associazione in libertà e quelli detenuti, assicurando anche a questi ultimi (tra i quali figurava, all’epoca, lo stesso capo) sostentamento economico e supporto per le spese legali».
Ma il clan Dragone era tutt’altro che annientato, come dichiarato dal collaboratore di giustizia, uomo dei Grande Aracri, nel corso di un’udienza del processo Pesci, che ha sancito l’operatività nel Mantovano di una cellula della consorteria criminale.
La carcerazione di gran parte degli esponenti della cosca Grande Aracri avrebbe comportato la nuova espansione del gruppo originario, aiutata dall’accresciuto “prestigio” criminale maturato da Raffaele Todaro «sistematicamente sfuggito – commenta il gip distrettuale di Brescia Andrea Gaboardi – grazie ad accurate tecniche di mimetizzazione nel contesto economico legale e pur rivestendo un ruolo di primissimo piano, alle attività d’indagine svolte nel corso degli ultimi anni in relazione a consorterie di matrice ‘ndranghetistica nel territorio lombardo ed emiliano».
L’indagato, osservano gli inquirenti, avrebbe, del resto, mantenuto contatti con la cosca Dragone anche dopo essersi separato dalla moglie Caterina Dragone, figlia del boss ucciso, continuando a finanziare i detenuti e a curarne gli “affari” fuori dal carcere. Relazioni d’affari che sarebbero rintracciabili anche nelle sentenze dei giudici amministrativi che hanno confermato provvedimenti prefettizi antimafia a carico di presunti membri del sodalizio criminale cutrese.
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