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CROTONE – I mafiosi che percepiscono il reddito di cittadinanza non commettono reato se omettono di dichiarare le pene definitive riportate, nella domanda all’Inps. Sembra esserci una scappatoia perché gli affiliati ai clan non possano beccarsi condanne pur essendo i reati di mafia ostativi all’ammissione al beneficio.
Almeno stando alla sentenza del gup del Tribunale di Reggio Emilia Dario De Luca, che ha assolto la 46enne crotonese Margherita Cau, moglie del boss scissionista del quartiere Papanice Leo Russelli, dall’accusa di non aver dichiarato la sua condizione di pregiudicata. La donna non è stata messa nelle condizioni di chiarire la sua posizione per un «profilo lacunoso della procedura certamente non addebitabile all’imputata ma all’amministrazione».
La violazione contestata non potrebbe essere sostenuta in giudizio, secondo il gup, che condivide le argomentazioni del difensore, l’avvocato Ferruccio Parri, poiché nei moduli da presentare all’Inps non è prevista la dichiarazione sulle condanne riportate, che pure sono causa di preclusione, né l’autocertificazione. Eppure Cau è stata condannata in via definitiva nel processo Herakles a 4 anni e 8 mesi di reclusione per estorsioni aggravate dalle modalità mafiose. Fu rintracciata, nel luglio 2009, insieme al marito, nel suo covo di Imola: il boss ergastolano aveva ancora le stampelle, dopo sette mesi di latitanza, quando i poliziotti della Squadra Mobile di Crotone lo pizzicarono coi familiari. I gravi traumi alle gambe erano riconducibili all’agguato della vigilia di Pasqua 2008, vittima il rivale Luca Megna, nel quale fu anche ferita gravemente la figlioletta Gaia; l’obiettivo predestinato, infatti, investì Russelli, presente sul luogo del delitto che aprì la faida di Papanice.
Il modello predisposto dall’Inps, osserva ancora il gup nelle motivazioni della sentenza, non contiene nemmeno riferimenti impliciti o espliciti all’indicazione delle condanne ostative al beneficio, per cui potrebbe trattarsi di “errore scusabile”. Non è prevista manco la classica postilla chiarificatrice. Di certo manca il dolo intenzionale, e non potrebbe dimostrarsi la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, rileva il gup. Ha destato scandalo il fatto che mafiosi anche di rango fossero riusciti a ottenere il sussidio. Figuriamoci se una manna del genere, in territori assediati dai clan e in cui i redditi ordinari fino a 9.630 euro annui hanno un’incidenza sul 20 per cento della popolazione, non potevano non diventare preda delle cosche.
Oramai non si contano le denunce, anche a carico di ‘ndranghetisti organici alle maggiori consorterie, con l’accusa di aver indebitamente richiesto e ottenuto l’assegno dall’Inps, con il conseguente avvio delle procedure di revoca del beneficio. Ma la sentenza di Reggio Emilia mette il dito su una falla. E se oggi il Rdc è al centro della tenuta della maggioranza e si discute tanto sul fallimento della misura, si può anche aggiungere che se la sentenza costituisse un precedente per altri organi giurisdizionali, vorrebbe dire che si sprecherebbero altre risorse in processi che intaserebbero le aule giudiziarie e si concluderebbero con assoluzioni di massa perché i mafiosi conclamati non commettono reato nel presentare istanza per l’ottenimento del sussidio.
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