Un'aula di tribunale
3 minuti per la letturaROCCABERNARDA (CROTONE) – Il gup distrettuale di Catanzaro Maria Cristina Flesca ha condannato a 18 anni e 8 mesi di reclusione il presunto boss di Roccabernarda Antonio Santo Bagnato, di 55 anni, finito sotto accusa per l’impossessamento illecito, dal 2005 al 2017, di numerosi terreni agricoli (il pm Antimafia Paolo Sirleo per lui aveva chiesto 20 anni).
Al figlio Giuseppe, di 35 anni, e alla moglie Stefania Aprigliano, di 41, sono stati inflitti rispettivamente 7 anni e 4 mesi e 7 anni e 8 mesi (il pm aveva chiesto dieci anni a testa); pene minori sono state disposte per il geometra Domenico Colao, di 40 anni, e per Domenica Le Rose, di 64, madre della Aprigliano, condannati rispettivamente a 1 anno, 6 mesi e 20 giorni esclusa l’aggravante mafiosa e a 1 anno e 4 mesi. Ha patteggiato 2 anni e 10 giorni di pena Domenico Iaquinta, di 40 anni, oggi collaboratore di giustizia. Sono tutti di Roccabernarda.
Un centinaio i terreni dissequestrati e restituiti ai legittimi proprietari dal gup su richiesta delle poche parti civili costituite, rappresentate dall’avvocato Luigi Morrone. Gli arresti per i Bagnato erano scattati nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Dda di Catanzaro a conclusione di complessi accertamenti della Compagnia dei carabinieri di Petilia Policastro e dell’Aliquota dei carabinieri della Sezione di polizia giudiziaria della Procura del capoluogo regionale. Estorsione con l’aggravante mafiosa, invasione di terreni, falsità ideologica e materiale, trasferimento fraudolento di valori e danneggiamenti aggravati dal metodo ‘ndranghetistico le accuse contestate. Si tratta di una prosecuzione dell’inchiesta che nel luglio 2018 aveva portato all’operazione Trigarium, ormai sfociata in condanne pesanti per il clan Bagnato (24 anni di reclusione sono stati inflitti al capocosca, già detenuto).
Una ventina i capi d’accusa relativi all’intestazione dei terreni, che sarebbe avvenuta con metodi violenti ed intimidatori – dalle telefonate minatorie alla collocazione di bottiglie incendiarie ai pestaggi – nei confronti degli originari proprietari, e ai passaggi burocratici mediante falsi testamenti o false dichiarazioni di usucapione contenute in atti di donazione. E se qualcuno non ci stava o andava a denunciare in caserma, veniva pedinato e subiva il danneggiamento di un centinaio di alberi d’ulivo.
Ma grazie alle dichiarazioni delle vittime ascoltate dai carabinieri sarebbero venuti alla luce molti episodi estorsivi. Nelle accuse ricompare anche l’abigeato, ovvero i furti di bestiame che la ‘ndrangheta rurale commetteva in passato, compiuti dal presunto boss con la complicità degli imputati.
I sospetti degli inquirenti sono appuntati sul cospicuo patrimonio dei Bagnato, costituito da ben 78 immobili accumulati dal 2013 a fronte di redditi esigui. Un patrimonio intestato alla moglie del boss per evitare, secondo l’accusa, che questi finisse nelle maglie delle misure di prevenzione in virtù dei numerosi precedenti.
Il gip Antonio Battaglia descriveva un «sistema perverso secondo il quale, nonostante in alcuni casi i terreni fossero stati acquistati mediante scritture private mai autenticate e mai registrate, frutto di pressioni e intimidazioni nei confronti dei proprietari, il meccanismo utilizzato per l’acquisizione è stato quello della derivazione “mortis causa”, mediante la pubblicazione da parte di parenti (genitori e nonni) deceduti da tempo, mentre in altre occasioni si è fatto ricorso alla donazione sempre da parte di parenti che negli atti dichiaravano di aver acquisito per usucapione gli immobili lasciati in eredità». Fu, infatti, necessario per gli inquirenti avvalersi della consulenza di un grafologo. In un caso i testamenti olografi alla presenza dei Bagnato furono consegnati al notaio a 24 anni dalla morte del proprietario.
Gli imputati erano difesi dagli avvocati Sergio Rotundo, Luigi Falcone, Francesco Calzone, che comunque hanno ottenuto l’assoluzione per alcuni dei capi d’accusa.
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