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CROTONE – Condanne per oltre 500 anni di carcere, a fronte degli oltre sei secoli (LEGGI) del primo grado: a tanto ammontano le pene inflitte dalla Corte d’Appello di Catanzaro nei confronti di 62 imputati nel processo scaturito dall’inchiesta che nel gennaio 2018 portò alla mega operazione “Stige”, contro il “locale” di ‘ndrangheta di Cirò (LEGGI).

Spiccano anche 17 assoluzioni, ma il gup distrettuale ne dispose 36 e alcune non sono state impugnate. Non è stato accolto l’appello del pm Antimafia Domenico Guarascio – applicato anche in secondo grado per questo procedimento – che in una precedente udienza chiedeva un aggravio di sanzioni.

Regge, in buona sostanza, a parte qualche riduzione di pena, l’impianto della sentenza di primo grado e, soprattutto, reggono le condanne pesanti per i capi di una super cosca che dal Crotonese si proiettava nel Cosentino e aveva ramificazioni nel Nord Italia e in Germania.

Ma sono diversi gli imprenditori assolti e, essendo in molti casi caduta l’ipotesi di monopolio delle attività economiche da parte della cosca, una fattispecie dell’associazione mafiosa, non regge la tesi dei tentacoli sul tessuto socio-economico, che già aveva subito colpi nella fase cautelare, con varie scarcerazioni.

Le pene più elevate, a 20 anni, sono state disposte per i i plenipotenziari del clan, come Vittorio Farao figlio Silvio, uno dei capi della cosca cirotana, Salvatore Giglio, boss di Strongoli, Salvatore Morrone e Giuseppe Spagnolo, tra i reggenti del clan, Francesco Tallarico, referente di Casabona, ma, in accoglimento della richiesta dell’avvocato Sergio Rotundo, è stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa Cataldo Marincola, per il quale la pena è scesa da 20 anni a 7 anni e 4 mesi: è uno dei due leader storici insieme a Giuseppe Farao, l’anziano boss che però ha scelto il rito ordinario e s’è beccato 30 anni (come il fratello Silvio).

Ridotta da 19 anni e quattro mesi a 13 anni e 4 mesi la pena per il cutrese Luigi Muto, ritenuto peraltro al vertice di un traffico internazionale di auto di lusso rubate e con legami con il clan Casamonica di Roma.

Otto anni, previa riqualificazione dell’accusa di associazione mafiosa in concorso esterno, è la pena confermata per l’ex sindaco di Cirò Marina Roberto Siciliani (il suo successore, Nicodemo Parrilla, peraltro presidente della Provincia di Crotone quando fu arrestato, ha scelto, invece, il rito ordinario ed è stato condannato a 13 anni in primo grado).

Ormai usciti di scena, non essendo state impugnate le loro posizioni, l’ex vicesindaco di Casabona Domenico Cerrelli e l’ex sindaco di Mandatoriccio Angelo Donnici, assolti in primo grado; è stata invece confermata l’assoluzione per l’ex presidente del consiglio comunale di Cirò Marina Giancarlo Fuscaldo.

L’INCHIESTA

«La più grande operazione antimafia degli ultimi 25 anni». Così il capo della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, definì l’indagine sfociata in 170 arresti con cui fu colpito il “locale” di Cirò con le sue propaggini nel Cosentino.

Boss e gregari, ormai ex sindaci e ex assessori, noti e facoltosi imprenditori provenienti da tutta la Calabria e operanti anche al Nord e all’estero rispondevano di una serie impressionante di accuse ripercorse in quasi 130 pagine di capi d’accusa.

L’inchiesta ha già portato allo scioglimento di quattro Comuni del Crotonese – Cirò Marina, Strongoli, Crucoli e Casabona. Ma sotto la lente delle commissioni d’accesso sono finiti anche due Comuni del Cosentino, Mandatoriccio e Colosimi. E una serie di interdittive antimafia sono state emanate a carico di importanti imprese che non possono più contrattare con la pubblica amministrazione.

Perché, per l’accusa, dall’offerta di pescato delle flotte nei porti di Cariati e Cirò Marina ai servizi di lavanderia industriale, dalla distribuzione di prodotti alimentari anche all’estero, in Germania – a partire dal vino, nel regno del doc, per arrivare al pane e ai semilavorati per pizze – a quella di carta e plastica, dal business dei rifiuti solidi urbani gestito tramite imprese “controllate” a quello per l’accoglienza dei migranti, senza dimenticare il gioco on line e gli appalti pubblici, tutto era monopolizzato, da 25 anni circa, dal “locale” di Cirò, che deteneva il “crimine”, nella provincia crotonese, prima dell’avvento del potente boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, la cui supremazia è stata spazzata, a sua volta, nel gennaio 2015 con le maxi operazioni Aemilia, Kyterion e Pesci.

Stige, il fiume dell’odio secondo la mitologia greca, era il nome in codice per l’operazione condotta dai carabinieri del Ros di Catanzaro e del Reparto operativo di Crotone che, sotto il coordinamento del procuratore Gratteri, dell’aggiunto Vincenzo Luberto e dei sostituti Domenico Guarascio, Fabiana Rapino e Alessandro Prontera, eseguirono la mega ordinanza di custodia cautelare.

L’organizzazione era guidata dal boss ergastolano Giuseppe Farao, ultrasettantenne, ed aveva la sua base operativa nell’area di Cirò, Cirò Marina e nei centri limitrofi, dove sarebbe stata accertata l’operatività delle ‘ndrine distaccate di Casabona e Strongoli.

IL MONOPOLIO

L’imprenditorialità sarebbe stato, per l’accusa, il tratto caratterizzante della cosca, secondo le direttive impartite dal vecchio boss a figli e nipoti e volte a limitare al massimo il ricorso ad azioni violente ed evitando gli scontri interni. Il controllo del territorio sarebbe stato poi demandato ad una serie di “reggenti”.

Intanto, il figlio del boss, Francesco Farao, si è pentito – è stato condannato a 4 anni e 8 mesi anche in Appello – e nelle nuove intercettazioni, versate dopo la chiusura delle indagini, il padre si dice amareggiato. A suo dire, collaborando con la giustizia, suo figlio lo ha “ammazzato”. Ma alcune delle interdittive sono cadute dopo i ricorsi e in seguito alle assoluzioni sono diverse le aziende dissequestrate.

Non regge del tutto, infatti, la tesi dell’infiltrazione mafiosa nell’economia, vista la serie di assoluzioni di imprenditori, e sono stati rimossi i sigilli alla Progetto ecologia di Alessandro Albano, imprenditore dei rifiuti, difeso dall’avvocato Fabrizio Gallo; alla Fa Italia di Frank Alessio, difeso dagli avvocati Giuseppe Trocino e Pasquale Nicoletta, che già avevano denunciato il danno d’immagine per il loro assistito, originario di Casabona ma noto anche in America per l’appalto degli infissi dell’Empire State building; alla Cuordifarina e alla Molino Caputo degli imprenditori Luigi e Amodio Caputo, difesi dagli avvocati Nuccio e Francesco Barbuto e Vincenzo Ioppoli; alla Cirò Vebeca sas, Tourist Service di Mandatoriccio, quest’ultima proprietaria del noto “Castello Flotta”, il locale dove, secondo la Dda, avevano luogo i ricevimenti nuziali degli uomini del clan. Dissequestri ovviamente contestuali alle assoluzioni degli imprenditori.

Cadono le accuse anche per Gilda Cardamone, figura centrale nell’affaire delle pescherie cirotane, difesa dall’avvocato Gianni Mauro, e per l’imprenditore di Sellia Marina Agostino Canino, assistito dagli avvocati Stefano Nimpo e Gianni Russano.

Ma, è appena il caso di evidenziarlo, importanti imprenditori sono stati condannati per concorso esterno in associazione mafiosa. A 8 anni. Come Franco Gigliotti, originario di Crucoli e operante nel Parmense, ritenuto il broker finanziario del clan, e Domenico Rocca, titolare di Rocca srl di San Mauro Marchesato, che gestiva appalti dei rifiuti in diversi Comuni del Crotonese.

I RISARCIMENTI

Tra le parti civili che hanno ottenuto il risarcimento dei danni (da quantificare in separata sede) i Comuni di Cirò Marina, Cariati, Strongoli, Colosimi, Cutro, Mandatoriccio, Scigliano, Cgil Emilia Romagna e Cgil Calabria.

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