Il pentito Luigi Bonaventura
3 minuti per la letturaCROTONE – «Chiedo di essere interrogato dalla Dda di Catanzaro. Da quasi 15 anni collaboro con la giustizia, ma non ho programma di protezione del 2014. Prima rientravo in quello dei miei familiari come ospite».
Al termine della deposizione nel processo “Malapianta”, quello contro il clan Mannolo di San Leonardo di Cutro e le sue proiezioni in Umbria, il pentito Luigi Bonaventura ha lanciato un appello e il pm Antimafia Pasquale Mandolfino ne ha «preso atto».
La sua testimonianza era stata preceduta, nei giorni scorsi, dalla denuncia della revoca della protezione dei suoi familiari e ieri, in un post su Facebook, prima di raggiungere il sito protetto per il collegamento in videoconferenza con l’aula delle udienze penali di Crotone, con un post su Facebook ha contestato che i suoi congiunti abbiano negato un trasferimento da una località riservata all’altra.
Il Quotidiano è in possesso di un documento in cui la moglie di Bonaventura riferisce alla Commissione centrale del Servizio di protezione che deve consultarsi con i familiari, e non rifiuta certo il trasferimento. Questo è il clima che ha preceduto la testimonianza dell’ex reggente della cosca Vrenna Bonaventura Corigliano di Crotone, chiamato a riferire della cosca sanleonardese il cui “capo storico”,
Alfonso Mannolo, conobbe in carcere nel ’93 e che ha definito come uno che era «avanti», per essere stato il «primo in provincia di Crotone a realizzare una raffineria di droga»; inoltre, era «dedito alle estorsioni ai villaggi turistici».
Una «consorteria famosa, importante», insomma. Ma Mannolo sarebbe stato anche «uno dei primi a passare dall’alleanza con i Dragone e gli Arena a quella con i Grande Aracri di Cutro», con riferimento alla nuova geografia mafiosa delineatasi con l’avvento del capocrimine Nicolino Grande Aracri. Bonaventura, incalzato dal pm ma anche dai difensori di Mannolo, gli avvocati Paolo Carnuccio e Gregorio Viscomi, ha raccontato di un episodio avvenuto nel penitenziario di Cosenza. Suoi compagni di detenzione erano figli e nipoti del capo storico del clan (in cella sarebbero stati celebrati riti di affiliazione, sempre secondo il pentito) e con loro avvenne un litigio durante una partita di calcio, per via di una «punizione».
«Intervenne “Gambazza” a mettere pace (il riferimento è al boss Antonio Pelle, esponente dell’aristocrazia della ‘ndrangheta di San Luca, ndr). I Mannolo esageravano, erano prepotenti e pensavano di avere tutti con loro».
Ma dei Mannolo ieri hanno parlato anche altri due pentiti. Vincenzo Marino, anche lui esponente della cosca crotonese, ha raccontato di traffici di droga del boss Mannolo col boss crotonese Pino Vrenna, oggi pentito, e di usura addirittura ai danni di un membro della famiglia Vrenna. Tant’è che Marino fu inviato dai Mannolo per chiedere di non vessare il loro parente a cui era stato prestato denaro, peraltro provento di una rapina a un portavalori. «Non toglietegli l’auto, i soldi ve li sta dando a poco a poco».
E Mannolo avrebbe mandato a dire: «non ci è arrivata una lira e gli togliamo tutto». L’ex cassiere della cosca Grande Aracri, il pentito Giuseppe Liperoti, si è soffermato sul racket ai villaggi, parlando di «controllo totale».
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