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CUTRO – L’elemento caratterizzante della super cosca di Cutro, quella al centro del maxi processo Aemilia, il più grande mai celebrato contro le mafie al Nord? «Il vero salto di qualità della presenza della ‘ndrangheta nel territorio emiliano è dato dalla capacità di infiltrazione nel tessuto economico-imprenditoriale e che maggiormente evidenzia il suo carattere autonomo rispetto alla casa madre cutrese».

Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello di Bologna in un passaggio delle quasi 2.600 pagine di motivazioni della sentenza di secondo grado con cui, nel dicembre scorso, sono stati inflitti quasi 700 anni di carcere a 113 persone (33 delle quali accusate di associazione mafiosa). I condannati sono stati 91, 27 gli scagionati tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni (LEGGI).

Nella sentenza emessa dalla Corte presieduta da Alberto Pederiali (a latere i consiglieri Maurizio Passarini e Giuditta Silvestrini) si insiste ancora una volta sull’autonomia della cosca emiliana, pur in sinergia con la casa madre dei Grande Aracri di Cutro. Il vertice indiscusso, il boss Nicolino Grande Aracri, la cui collaborazione con la giustizia è stata di recente ritenuta inattendibile dalla Dda di Catanzaro (LEGGI), in questo processo però non risponde di associazione mafiosa, reato per cui è stato condannato in via definitiva nei processi gemelli Kyterion e Pesci.

Il 28 gennaio 2015 scattò una manovra a tenaglia condotta da tre Dda contro la cosca Grande Aracri: quelle di Bologna, Catanzaro e Brescia, che misero a segno appunto le maxi operazioni Aemilia, Kyterion e Pesci da cui sono scaturiti processi per oltre 300 persone sparsi in mezza Italia.

Rispetto all’infiltrazione, «non è emerso alcun elemento probatorio che susciti anche solo il sospetto che in tale ambito venissero impartiti ordini o anche solo che il sodalizio emiliano informasse o tenesse aggiornato il capo cosca cutrese, eccetto nei casi in cui quest’ultimo non avesse un interesse particolare avendo egli investito denaro nel singolo affare o essendo destinatario di una parte dei profitti».

Due sistemi, dunque, che operavano in stretta collaborazione, in «una coesistenza sinergica della tradizionale area militare con quella moderna imprenditoriale», coniugando «vecchie e nuove modalità di azione, in grado di alimentare la capacità di infiltrazione della consorteria in una spirale potenzialmente senza fine». La cartina di tornasole – si legge in sentenza – è rappresentata dalle «numerose riunioni che venivano organizzate per trattate di questioni e affari che riguardavano l’intero sodalizio e alle quali partecipavano indifferentemente tutti gli esponenti dell’associazione senza alcuna distinzione tra le posizioni dei sodali».

Il modus operandi della ‘ndrangheta cutrese in Emilia? «Sistematiche azioni estorsive e usurarie commesse soprattutto in danno sia di soggetti di origine calabrese residenti sul territorio emiliano, sia ai danni di imprenditori locali in difficoltà economiche». Un modus operandi rodatissimo, «una modalità intimidatoria abituale della organizzazione volta a rendere arrendevoli e accondiscendenti gli imprenditori».

Vessazioni attuate da boss e gregari «avvalendosi della condizione di assoggettamento e di omertà connessa all’ormai diffusa conoscenza della natura e della forza del sodalizio» nel territorio reggiano e piacentino.

Ma c’era anche «l’avvicinamento e il coinvolgimento di personaggi gravitanti nel mondo della politica locale e degli organi di informazione e rapporti con alcuni esponenti delle forze dell’ordine, «che hanno dimostrato una vera e propria partecipazione agli scopi dell’associazione mafiosa mettendosi di fatto a disposizione dell’associazione mafiosa». Il riferimento è alle iniziative intraprese tra il 2011 e il 2012 per trovare un accordo con l’ex consigliere comunale e provinciale reggiano Giuseppe Pagliani, assolto in Appello, “al fine di offuscare la presa di coscienza del problema di ordine pubblico rappresentato dalla presenza sul territorio reggiano di un sodalizio ndranghetistico”; in questo contesto si situerebbe la cosiddetta “cena delle beffe” che vedeva come ospite d’onore il politico emiliano e i pezzi grossi dell’imprenditoria cutrese in Emilia.

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