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BOLOGNA – Lo scorso 28 aprile il Giudice per l’udienza preliminare, Francesca Zavaglia, ha emesso la sentenza di condanna nei confronti di 86 persone (58 condanne in abbreviato, 17 patteggiamenti, 12 assoluzioni e un proscioglimento per prescrizione) coinvolte nella maxi inchiesta Aemilia sulla presenza della ‘ndrangheta calabrese in Emilia Romagna (LEGGI LA NOTIZIA) a distanza di circa sei mesi il magistrato ha depositato le motivazioni contenute in 1390 pagine della sentenza che tratteggiano un quadro preciso e puntuale della criminalità calabrese attiva oltre i confini regionali.
Le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel tessuto sociale emiliano
«Nell’indagine Aemilia – ha precisato il magistrato nelle sue motivazioni – si assiste alla rottura degli argini» da parte della criminalità calabrese in Emilia dove «la congrega è vista entrare in contatto con il ceto artigianale e imprenditoriale reggiano, secondo una strategia di infiltrazione che muove spesso dall’attività di recupero di crediti inesigibili per arrivare a vere e proprie attività predatorie di complessi produttivi fino a cercare punti di contatto e di rappresentanza mediatico-istituzionale». Secondo il giudice Zavaglia a caratterizzare l’attività delle cosche (nel caso specifico il clan dei Grande Aracri provenienti dall’area di Cutro nel Crotonese) è «la fuoriuscita dai confini di una microsocietà calabrese insediata in Emilia, all’interno della quale si giocava quasi del tutto la partita, sia quanto agli oppressori che alle vittime».
Il condizionamento dell’economia da parte della ‘ndrangheta
«Il sempre più pervasivo livello di penetrazione nella realtà imprenditoriale e il conseguente incremento di consapevolezza dell’incombente presenza della ‘ndrangheta a condizionare il quotidiano agire – ha scritto il giudice – ha prodotto un ambiente globale, fatto di cutresi e di emiliani, nel quale la modalità mafiosa viene ormai apprezzata in tutta la sua carica, significato e valenza». Le finalità dell’associazione «permangono quelle della commissione di numerosi e variegati delitti», come usura, estorsione, reimpiego di denaro di illecita provenienza e, reati fiscali. Ma, «di nuovo rispetto al passato vi è l’ingente entità dei valori trattati e la complessità delle strategie poste in essere all’interno di una finalità di più ampio respiro, volta alla gestione delle attività economiche nonché al controllo di interi settori dell’imprenditoria locale».
La sentenza del giudice appare confermare e ampliare il concetto di ‘ndrangheta imprenditrice presente negli atti di accusa. Per il magistrato «l’eletto settore di operatività dell’associazione è senza dubbio l’impresa – scrive – con particolare riguardo all’edilizia e ai trasporti, ove la potenza del clan ha generato un serio pregiudizio alla libera concorrenza». Un sistema di potere e influenze che è uno «strumento a disposizione della cosca locale per generare e moltiplicare ricchezza e allo stesso tempo, funzionale agli interessi del boss Nicolino Grande Aracri», a capo della cosca di Cutro di cui quella emiliana è ritenuta un’autonoma derivazione.
La ‘ndrangheta rivisitata in chiave moderna
Quella attiva in Emilia è una ‘ndrangheta moderna e mimetizzata. Così la definisce il gup Zavaglia che precisa come il tratto peculiare emerso dal processo Aemilia è «la fisionomia di una struttura criminale moderna, che affianca le caratteristiche della classica tradizione ‘ndranghetistica calabrese a modalità operative agili e funzionali a penetrare nel profondo della realtà socio-economica emiliana». Con una «dimensione prettamente affaristica nell’agire del sodalizio emiliano finalizzata, da un canto, al reimpiego dei flussi di denaro provenienti dalla cosca calabrese e dall’altro alla produzione di ricchezza locale tramite condotte predatorie, vieppiù agevolate dalla grave congiuntura economica del periodo, così da assecondare un processo di espansione, di vera e propria conquista, fortemente inquinante e soffocante il vitale tessuto locale».
Il ruolo delle imprese
Presupposto dell’azione della cosca, per il giudice, è la disponibilità di imprese, non solo schermo di attività illecita, ma realmente operanti, «confondendosi lavori legittimi con condotte illecite, altre volte i lavori legittimi involvendo, a fronte di ostacoli, in azioni illegali. Casi, questi ultimi, nei quali la ‘mimetizzata’ ‘ndrangheta emiliana mostra la sua essenza». «La facilità di azione, l’agevole reperimento di anelli deboli attratti dai guadagni, dalle lusinghe nonché talvolta dal ‘fascino’ del potere malavitoso e l’ingente quantità di ricchezza illecitamente prodotta e distribuita sono fattori che hanno contribuito a distendere le tensioni che sempre accompagnano le lotte di potere e a sbiadire il volto violento (pur in passato esistito anche in Emilia) dell’associazione ndranghetistica qui tratteggiata».
Il rapporto con la Calabria
Il giudice Zavaglia definisce il rapporto tra la cosca Emiliana e la famiglia di origine calabrese come all’insegna della «complementarietà» frutto di due «autonome realtà che agiscono in convergenza di fini». Il Gup scrive che «l’organizzazione emiliana, ben radicata nel territorio e in continuo contatto con la cosca di Cutro, ha dato prova di possedere le caratteristiche e di manifestarsi nei delitti in modo analogo alle consorterie operanti in terra d’origine e di godere di autonomia operativa e decisionale». Dal canto suo «la casa madre ha dimostrato di ‘utilizzare’ la cosca locale, attraverso esponenti in particolar modo deputati a fungere da trait d’union, per la sinergica conduzione di alcuni ‘affari’ nell’ottica della massimizzazione del profitto e del reciproco consolidamento».
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