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L'uscita di alcuni migranti dal centro di Crotone

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CROTONE – «Ma io lunedì vorrei andare a scuola…». Ha gli occhi smarriti Amadu Gassamà, 19enne del Gambia. Frequenta un corso di alfabetizzazione e non sa se potrà tornarci. C’è anche lui fra i 24 migranti sbattuti fuori dal Centro d’accoglienza S. Anna, anzi “regional hub”, come dicono quelli che parlano bene, per effetto del decreto Salvini. Ieri 24. Oggi 90.

Nei prossimi giorni circa 200. Niente più protezione umanitaria, e migranti in strada, proprio ieri che a Crotone è arrivato un freddo pungente. I primi effetti del decreto Salvini sono tangibili in una città crocevia dell’immigrazione e sede di una delle strutture per migranti più grandi d’Europa.

Un pullman della Misericordia, attuale ente gestore del centro, ha accompagnato ieri, intorno alle 18,30, un gruppo alla stazione ferroviaria. Un altro gruppo, tra cui una famiglia composta da cinque persone, con un bimbo di cinque mesi e una donna incinta di tre mesi, non voleva lasciare il centro. Il prefetto, Cosima Di Stani, ha contattato la Chiesa e le associazioni che si sono fatte carico di ospitare delle persone più vulnerabili.

In particolare, presso la Croce rossa è stata alloggiata la famiglia con il neonato e la donna incinta e due ivoriane vittime della tratta. La coop Agorà, non contattata dalle istituzioni, ma avuta notizia tramite alcuni ospiti della rete Sprar dell’emergenza che di lì a poco si sarebbe venuta a creare, si è attivata e ha preso in carico un gruppo di ragazzi, 19enni. Sono giovanissimi, a volte manco si capisce la differenza tra un 19enne e un 17 enne. Tra loro ce n’è uno con una cartella clinica che segnala un disagio mentale che richiede la trattazione mediante farmaci e oggi l’Agorà lo accompagnerà al Centro di salute mentale dell’Asp.

Oggi è in programma un incontro delle associazioni per verifica, ma intanto, mentre è impossibile comunicare con la Prefettura, sulle cui spalle è piombata d’improvviso, da un giorno all’altro, una grana del genere, fioccano i commenti inferociti dal mondo del terzo settore. Quella che è venuta meno è, infatti, la misura di protezione più diffusa e concessa in Italia ai richiedenti asilo, con una durata che va dai 6 mesi ai due anni.

Introdotta in Italia nel 1998 con l’articolo 5 comma 6 del testo unico 286/98, la protezione umanitaria era concessa per motivi, di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano, oltre ai casi in cui una persona fugga da conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi esterni all’Ue. In sostanza, era un permesso di soggiorno che lo Stato riconosceva a coloro che, pur non avendo i requisiti per ottenere la protezione internazionale, presentavano comunque delle vulnerabilità tali da richiedere una forma di tutela. Ora le cose cambiano.

Queste persone non possono più stare nel Centro di prima accoglienza, avendo esaurito l’iter burocratico per l’ottenimento dello status di rifugiati, né possono essere accolti nella rete Sprar, quella dei centri di seconda accoglienza. Alcuni si sono arrangiati, cercando soluzioni presso propri amici. A più vulnerabili pensano le associazioni e la Chiesa. Per molti altri non sembrano esserci alternative alla strada e all’addiaccio. Alcuni hanno trovato rifugio nella baraccopoli sorta da tempo nei pressi del cavalcavia all’ingresso nord di Crotone, dove vivono in condizioni molto precarie un centinaio di altri extracomunitari.

«E’ vergognoso quello che sta accadendo – dice Francesco Parisi, presidente provinciale della Croce rossa italiana – perché non si guarda in faccia alla vulnerabilità delle persone per inseguire un populismo becero e la sua disumanità». Per Gregorio Mungari Cotruzzolà «si prevede un’emergenza in tutto il Paese che alla fine creerà una percezione di maggiore insicurezza nei territori, poiché in strada ci saranno più migranti di prima».

Secondo Pino De Lucia, responsabile immigrazione di Legacoop Calabria, «i costi per eventuali casi speciali che riguardano migranti minori, malati e disabili, sono a carico dei Comuni ospitanti, con notevole aggravio per le casse degli enti locali».

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