Pasquale Manfredi, detto "Scarface"
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L’ergastolano Manfredi, detto Scarface, dal carcere si opponeva alla ripresa della faida tra le cosche di Isola e negava l’assenso a omicidi
ISOLA CAPO RIZZUTO – Del suo bazooka era talmente innamorato che lo chiamava «gioia mia». Lo baciava e lo accarezzava, come emerge dalle intercettazioni di una vecchia inchiesta antimafia, quella denominata Pandora. Del resto, sul suo profilo Fb aveva scelto il nome di “Scarface”, dal film cult di Brian De Palma interpretato dal grande Al Pacino. In cella, però, era diventato una sorta di paciere, sempre nel rispetto delle “regole” di ‘ndrangheta. Il bazookista della cosca Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, l’ergastolano Pasquale Manfredi, che oggi ha 48 anni, in carcere parlava degli scontri latenti nella complessa galassia delle cosche isolitane manifestando la propria difficoltà a schierarsi in una nuova faida. Dalle carte della nuova operazione contro i clan di Isola Capo Rizzuto, “Blizzard-Folgore”, emerge ancora una volta il suo ruolo di primo piano nella criminalità organizzata locale. Le intercettazioni captate nel carcere di Livorno in occasione di un incontro con i familiari dimostrerebbero che forniva le direttive su come gestire le frizioni con le altre “famiglie”.
LA “REVISIONE”
Prima, però, bisognava uscire dal carcere. Tant’è che aveva già trovato qualcuno disposto a procurargli un alibi per l’omicidio compiuto la vigilia di Natale 2005, vittima Pasquale Tipaldi. Un omicidio che si inquadrava nello scontro cruento tra gli Arena e i Nicoscia. Erano gli anni in cui “Scarface” pattugliava le campagne di Isola alla ricerca di obiettivi della cosca avversa da eliminare. Tipaldi fu assassinato una ventina di giorni dopo che era stato ucciso il padre di Pasquale Manfredi, Mario. Venne trovato dal figlio, preoccupato per la mancata risposta alle sue chiamate, mentre era agonizzante in auto, dove era stato raggiunto da sette fucilate. Per il delitto Tipaldi, Pasquale Manfredi è stato condannato in via definitiva alla massima pena. Il teste a discarico, peraltro stretto congiunto della vittima, si sarebbe prestato a scagionarlo, affermando che l’omicidio non era maturato nell’ambito dello scontro tra gli Arena e i Nicoscia. E per giustificare il tardivo “contributo” di giustizia avrebbe detto che temeva ritorsioni. L’alibi preconfezionato prevedeva che Tipaldi avrebbe inteso uccidere un esponente delle cosche isolitane per una relazione extraconiugale intrattenuta con due donne con cui la vittima era imparentata. Ma non ci sarebbe stato l’assenso e l’omicidio sarebbe maturato nell’entourage familiare di Tipaldi. Secondo il piano orchestrato, si voleva far ricadere la responsabilità su Giuseppe Arena, ormai deceduto (vittima di lupara bianca).
PROGETTI DI OMICIDIO
Tra gli argomenti di conversazione con i familiari, anche il progetto di omicidio da parte Francesco Gentile e dei figli Tommaso e Fiore di uccidere Giuseppe e Pasquale Arena, pezzi grossi dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta. Il movente? Mentre Franco Gentile avrebbe ucciso il proprio fratello Fiore, Giuseppe Arena non avrebbe ucciso il proprio fratello Pasquale. Pare che i due avessero questo accordo, non rispettato, però, da Giuseppe Arena, che avrebbe risparmiato il fratello. Sempre durante quel colloquio in carcere, sarebbe stato prospettato il progetto di omicidio, da parte di Tommaso Gentile, nei confronti di Antonio Nicoscia. Inoltre, si sarebbe parlato di un’alleanza Nicoscia-Arena per eliminare i Gentile. Se Pasquale Manfredi non si fosse opposto, Domenico Nicoscia lo avrebbe posto al vertice della propria famiglia.
L’AMBASCIATA
Pasquale Manfredi passa così in rassegna tutta una serie di fatti di sangue che abbisognavano del suo placet per poter essere compiuti. Ma avrebbe dato mandato a un’avvocatessa di rivolgere un’”ambasciata” all’esterno del carcere per far sapere negli ambienti criminali che lui avrebbe negato l’assenso. Pasquale Manfredi, inoltre, faceva riferimento al progetto di omicidio del figlio Luigi, sventato dall’operazione Tisifone. Quindi avrebbe dovuto uccidere chi aveva pianificato quel delitto. Ma c’erano tutti quegli scontri latenti. In carcere a Catanzaro, Manfredi avrebbe saputo da Domenico Nicoscia che intendeva risparmiare il solo Tommaso Gentile in quanto cognato dello stesso Manfredi. Ma a condizione che Manfredi si facesse garante per salvare la vita ad Antonio Nicoscia, nel mirino dei Gentile. Manfredi però non voleva una nuova faida. Reputava responsabile il figlio Luigi del problema che si era venuto a creare. E affermava di essere staro avvicinato da Pasquale Arena, che voleva offrirgli denaro per indurlo ad appoggiare gli Arena nella contrapposizione con i Gentile.
L’ESILIO
Il proposito omicida era sempre quello nei confronti di Antonio Nicoscia, su sollecitazione di Tommaso Gentile e Domenico Riillo. Ecco perché “Scarface” avrebbe convocato, durante l’ora d’aria nel carcere di Catanzaro, Antonio Nicoscia, Luigi Manfredi, Domenico Nicoscia e Pasquale Arena classe ’92, figlio di Giuseppe. Nicoscia aveva intrattenuto una relazione con la donna “sbagliata”, quella di un pezzo grosso della cosca, che non meritava l’offesa. In cambio, raccontava Manfredi, gli avrebbe risparmiato la vita se, una volta scarcerato, si fosse allontanato da Isola. Una forma di indulgenza legata al sentimento di rispetto nei confronti di Salvatore Nicoscia, zio di Antonio. Domenico Nicoscia, del resto, lo aveva invitato a dirimere tutte le conflittualità tra le famiglie di Isola, in particolare gli avrebbe chiesto di salvare la vita ad Antonio Nicoscia. Ma lo stesso Nicoscia lo avrebbe invitato a coalizzarsi con Arena per sterminare la famiglia Gentile. Alla fine, secondo lo Scarface-pensiero, la decisione di compiere un omicidio doveva prescindere dai legami parentali. Perché prevalgono sempre le “regole” di ‘ndrangheta.
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