Gaetano Aloe
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La crisi spirituale del pentito Aloe: «Dopo il corso biblico non me la sentivo più di fare la stessa vita e rifiutai di compiere un altro omicidio»
CIRÒ MARINA – In carcere ha avuto una crisi spirituale. Ha seguito un “corso biblico”. E questo gli ha «cambiato la vita». «Ci credevo molto», ha confessato al pm antimafia Domenico Guarascio. Per questo, una volta scontata la pena per associazione mafiosa dopo l’arresto nell’operazione “Stige”, Gaetano Aloe, il figlio di Nick, il boss assassinato nel 1987, non ce la faceva a tornare alla vita di sempre. «Non mi sento più di fare quella vita. Troppi abusi, troppa droga. Non mi va più di chiedere soldi alle persone. Voglio fare la vita mia, voglio i miei figli…».
LA CRISI SPIRITUALE DI ALOE
Ma, soprattutto, non se l’è sentita di compiere un nuovo omicidio. Sono finalmente resi pubblici i verbali del pentito Gaetano Aloe, che spiega anche perché ha deciso di collaborare con la giustizia.
GLI INTERROGATORI
Nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere per la strage al ristorante dell’agosto 2007, a carico di quattro pezzi grossi della cosca Farao Marincola, ovvero Franco Cosentino, di 51 anni, Martino Cariati (45), Vito Castellano (61) e Palmiro Salvatore Siena (68), ci sono gli interrogatori non più coperti da omissis. Alcuni aspetti già si conoscevano perché quei verbali, sia pure non riportati in forma integrale, erano stati utilizzati nel processo contro Cataldo Marincola, già condannato all’ergastolo in primo grado per aver dato l’ordine di uccidere. Altri presunti mandanti e organizzatori come i capi storici del “locale” di ‘ndrangheta di Cirò, Giuseppe e Silvio Farao, e Giuseppe Spagnolo, cognato del pentito, sono stati, invece, assolti. Ma gli imputati assolti potrebbero essere inguaiati nei successivi gradi di giudizio da elementi emersi nella nuova inchiesta che svela anche i ruoli di esecutori e organizzatori del raid di morte.
CAPO DI MEZZA CALABRIA
Innanzitutto, Aloe inquadra il ruolo del mandante dell’agguato in cui morì Vincenzo Pirillo e furono ferite altre sei persone tra cui una bimba di undici anni. A Pirillo era stata affidata la reggenza della cosca Farao Marincola in assenza dei capi detenuti. «Cataldo è un capu d’a menza Calabria – ha rivelato il pentito con la sua parlata dialettale al pm Guarascio – Gli altri non valgono niente. Quello che è, è Cataldo». In seguito al pentimento del figlio Francesco, perfino lo storico boss Giuseppe Farao sarebbe stato soppiantato. «Non è manco nella copiata, l’hanno tolto», ha svelato Aloe facendo riferimento all’organigramma della ‘ndrangheta. Un mondo che non ammette defezioni. Il ruolo di capo del crimine cirotano rivestito da Marincola, invece, sarebbe indiscusso e l’influenza della cosca da lui capeggiata si estenderebbe su una vasta area.
RIFIUTO DI UN OMICIDIO
Il pentito ha spiegato anche cosa è che lo ha spinto alla collaborazione con la giustizia. Si era rifiutato di compiere un omicidio, quello di Luca Frustillo. «Non me la sono sentita». Opponendosi alla richiesta, giunta dai vertici del “locale” di ‘ndrangheta di Cirò, sarebbe stata messa in discussione la posizione da lui ricoperta nell’organizzazione criminale. Sarebbe stata la sua condanna a morte.
DIRITTO DI NASCITA
Da figlio di boss, Aloe aveva goduto del “diritto di nascita”. Non c’era neanche bisogno di essere “battezzato” per entrare a far parte dell’organizzazione criminale, in quanto lui partiva direttamente dalla “seconda dote”. Ma la sua formale affiliazione è avvenuta proprio dopo il delitto Pirillo in quanto ricevette per meriti sul campo la terza dote, quella di “vangelo”. «Da primogenito di Nick sono battezzato dalla nascita. Mio padre era capo non solo di Cirò. Si può dire della Calabria, quasi. Ho a priori la prima e la seconda dote. Dopo la morte di Vincenzo Pirillo mi hanno fatto il battesimo. Ho il Vangelo».
LA CONFESSIONE
Sarebbe stato lo stesso Pirillo a spiegare ad Aloe perché suo padre morì, addossandosi le responsabilità. Suo padre avrebbe violato le regole della ‘ndrangheta intrattenendo una relazione extraconiugale. Anche se vari atti giudiziari emerge che si stava affermando la leadership dei Farao-Marincola all’interno della cosca. Pirillo era peraltro cugino della madre del pentito. «Mi ha detto che era responsabilità sua. “Se hai qualcosa te la vedi con me”». «No, non tengo niente», disse Aloe fingendo di non serbare rancore.
IL MANDATO
In realtà, Aloe ammette di aver colto “la palla al balzo” appena Vito Castellano e Pino Sestito, tra i plenipotenziari del clan, gli dissero che Pirillo doveva essere ucciso. «Ti faccio un bel regalo, te la senti di ammazzare Cenzo?». Così Sestito esordì nel proporgli l’incarico di morte, sapendo forse di trovare la porta aperta perché era risaputo negli ambienti criminali che Pirillo era ritenuto responsabile dell’uccisione di Nick Aloe. Un omicidio come “regalo”. Il pentito accettò e indicò il complice in Franco Cosentino. «L’unico che voglio». Il mandato veniva dal “padrino”, come era chiamato il boss Marincola, allora latitante.
I CONTRASTI
Aloe racconta anche di contrasti insorti col cognato Giuseppe Spagnolo, sospettato da Pirillo di voler organizzare l’agguato ai suoi danni. Pirillo andò perfino a far visita in casa a Spagnolo, allora agli arresti domiciliari, quando seppe di un motorino rubato. «Perché vuoi ammazzarmi?». Spagnolo non condivideva che fosse Aloe a uccidere Pirillo anche perché temeva che gli venisse attribuita la responsabilità. Si era anche sottratto all’ordine di Marincola che in un primo momento aveva individuato lui come killer, come racconta un altro pentito, Nicola Acri.
L’AGGUATO
Per giorni Gaetano Aloe avrebbe pedinato la vittima, con l’ausilio dei complici, ma l’agguato non andava a segno perché Pirillo era guardingo. «Quando mi vedeva, mi guardava strano e scappava». Quella drammatica sera arriva la segnalazione da parte del coindagato Siena. «Scappa, cambiati che sta mangiando all’Ekò». A quel punto Cosentino arriva con lo scooterone rubato, i caschi e i passamontagna rosa, ricavati da collant. «Siamo entrati dalla porta dietro e abbiamo sparato. Prima ho sparato io, poi pure Franco che è caduto pure per terra». I killer fecero fuoco all’impazzata e venne ferita pure la bimba di undici anni che Pirillo aveva sulle gambe. Le pistole sarebbe state fornite da Sestito e Castellano.
IL RIMPROVERO
«Ma sei un pisciaturo? Dobbiamo sparare alle donne?». Queste le parole con cui il boss Marincola accolse Pirillo dopo l’omicidio in un hotel a Isola Capo Rizzuto. Insieme a Pirillo, infatti, rimase ferita gravemente la moglie. Ma era un finto rimprovero per Aloe. Il boss comunque lo abbracciò. E come premio, l’esecutore materiale del delitto ebbe pure la terza “dote” di ‘ndrangheta, quella di “vangelista”.
IL MOVENTE
Al movente tutto personale di Aloe, la vendetta per l’uccisione del padre, si aggiunge il fatto che Pirillo era inviso ai vertici della consorteria criminale cirotana per aver accentrato la gestione durante il suo periodo di reggenza. «Metteva sull’attenti pure Castellano. E a Cataldo diceva “tu fatti la latitanza che a Cirò me la vedo io e non ti faccio mancare niente”».
Il pentito ha aggiunto che la proposta, da parte di Pirillo, di cessione di parte di un palazzo venne interpretata come un affronto da Marincola. Intanto, Spagnolo era contrario che il delitto venisse eseguito da Aloe. «Ci sono 50 ‘ndranghetisti, perché ti devi mettere tu?». «Il padrino ha detto che devo farlo io». Ora però Aloe non prende più ordini dalla ‘ndrangheta. Ha deciso di cambiare vita. E di non spezzare altre vite.
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