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Lo storico delle mafie Antonio Nicaso

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Intervista allo storico Nicaso sull’utilizzo del linguaggio social da parte delle nuove leve della ‘ndrangheta


CUTRO – Le mafie comunicano in rete, cercano proseliti anche sui social. Non stupisce più di tanto che i figli di Vito Martino, il killer ergastolano che pensava di riorganizzare la cosca di Cutro tramite le videochiamate autorizzate dal carcere dopo il finto pentimento del boss Nicolino Grande Aracri, postassero su Tik Tok gli screenshot di quei colloqui.

Cosa si cela dietro questa nuova autonarrazione dei clan di ‘ndrangheta sui social lo spiega lo storico delle organizzazioni criminali Antonio Nicaso, che ha studiato il modo con cui le mafie comunicano nel mondo digitale. I “cattivi maestri” sono stati i cartelli messicani con la loro estetica del potere, della ricchezza, dell’appartenenza. La differenza con le organizzazioni criminali italiane è che ogni loro video postato è messaggio del gruppo e non dell’individuo. Così si costruiscono nuove narrazioni e si replicano sul web anche le pratiche di affiliazione. Ma presto «questa strategia di gruppo arriverà anche in Italia».

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Professor Nicaso, Tik Tok è stata finora la piattaforma prediletta dalla camorra, ma a quanto pare neanche la ‘ndrangheta disdegna l’estetica dell’appartenenza mafiosa sui social. I figli di un ergastolano, al termine di colloqui in carcere durante i quali si discute di strategie mafiose, fanno post in cui il padre si mostra sorridente. Cosa significa?

«Tik Tok è la piattaforma prediletta dalle giovani generazioni di mafiosi e di simpatizzanti delle mafie. La tecnologia è un ambiente da abitare, una dimensione della mente. Il mondo virtuale si intreccia continuamente con quello reale e i social media sono in grado di rideterminare la costituzione dell’identità e delle relazioni. C’ un duplice approccio che emerge dagli studi fatti con la fondazione Magna Graecia e con Marcello Ravveduto (professore di Public and digital history all’Università di Salerno e di Modena-Reggio Emilia, ndr).
Mentre l’Internet di superficie vive nel riflesso del reale, rimodella spazi simbolici, valorizza il potere di persuasione del gruppo, l’Internet sommerso è quello in cui è possibile creare nuove dinamiche criminali, pensiamo alle piattaforme informatiche criptate o alle tecniche di riciclaggio. In particolare, questa ostentazione dell’appartenenza mafiosa è un segno della capacità delle mafie di adattarsi ai tempi. A volte è sfoggio di ricchezza, a volte è orgoglio delle tradizioni, volontà di manifestare un modo di essere e di pensare. Pensiamo all’uso spregiudicato dei social media che fanno i Jalisco o i Narco Junior, ma è un aspetto che si coglie in tutte le organizzazioni criminali ed è figlio della tecnologia digitale».

Che differenza c’è rispetto alle mafie italiane?

«Gruppi criminali nordamericani, centramericani, sudamericani utilizzano i social in modo strategico, postano il messaggio del clan. Dietro c’è una regia comune, una strategia di gruppo. I figli dei boss italiani o i loro simpatizzanti rappresentano loro stessi. Ma succederà anche quiquello che accade altrove, emergerà il noi e non l’io».

Dalla stessa inchiesta che ha disarticolato le nuove leve della cosca di Cutro, emerge anche che l’anziano boss di Papanice, Domenico Megna, utilizza più accortezze e tiene i summit in campagna, tra i bovini, per eludere le intercettazioni, redarguendo gli interlocutori che parlano ad alta voce. I veterani sono più scaltri o il linguaggio della ‘ndrangheta è destinato a diventare più social?

«Viviamo in una dimensione irreversibile, il telefonino è un’estensione della nostra mente. I mafiosi delle nuove generazioni sono diversi da quelli precedenti, che ostentavano anche loro l’appartenenza al clan ma in un altro modo. Molti uomini d’onore, sin dai primi decenni della presenza in Calabria della ‘ndrangheta, per rendersi riconoscibili si “annacavano”, camminavano dondolando, ostentando una certa arroganza, che traspariva anche dal modo di verstirsi. Il capello tagliato a farfalla era uno di quegli elementi che connotavano l’appartenenza. Oggi si è arrivati all’eccesso dei media, usati in modo strategico. Pensiamo alla faida di Ponticelli».

Dopo la presentazione del rapporto sulle mafie digitali, lei, il procuratore Gratteri e il professor Ravveduto avete incontrato i vertici di Tik Tok, che avevano mostrato la volontà di rimuovere i contenuti riconducibili alle mafie. C’è un modo per contrastare questa strategia mediatica delle cosche?

«Ci hanno detto che Tik Tok è una piattaforma di contenuti, ma i loro filtri sono aggirati tramite parole scritte con uno spelling errato o espressioni dialettali che non vengono decodificate. Noi ci siamo limitati ad ascoltare, ma è stata manifestata l’intenzione di combattere questo utilizzo spregiudicato della piattaforma. Hanno cominciato a creare filtri più rigidi, sono più vigili rispetto al passato. Il fatto che vogliano approfondire l’argomento vuol dire che hanno capito che c’è un problema».

Da una parte abbiamo cosche di ‘ndrangheta che si evolvono sia attraverso il loro linguaggio social sia utilizzando tecnologie sempre più sofisticate per penetrare nei meandri oscuri del web. Ma in Calabria c’è anche il fronte caldo della Sibaritide, dove in una notte vengono bruciate tre auto…

«Quando parliamo di mafie, non dobbiamo immaginare un monolite ma tanti clan che, pur condividendo i codici, aspetti più generali e ontologici, sono diversi tra loro. Non tutte le organizzazioni criminali sono in grado di gestire traffici internazionali di droga, di penetrare nei centri vitali del potere, di evolversi tecnologicamente. Ci sono ancora clan che mantengono in vita vecchie strategie. Fermo restando che anche le organizzazioni criminali che si evolvono mantengono una riserva di violenza, che resta a disposizione e utilizzano solo quando è strettamente necessario perché hanno capito che muoversi sotto traccia è la strategia più efficace.  Le organizzazioni criminali non  sono create con lo stampino, si inseriscono in un contesto culturale, sociale, economico, non agiscono tutte allo stesso modo».

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