Nicolino Grande Aracri
7 minuti per la letturaCUTRO – Adesso sappiamo cosa accadde dopo che il super boss di Cutro, Nicolino Grande Aracri, battè le mani. Come facendo il segno di pulirsele. «Compà… ve lo potete pure fumare». Nella ormai famigerata tavernetta del “mammasantissima”, ritenuto dalla Dda di Catanzaro a capo di una provincia di ‘ndrangheta che estende i suoi confini ben oltre il Crotonese, l’argomento di discussione era la mancata dazione di denaro da destinare alle famiglie dei detenuti da parte di Giuseppe Bruno, che qualche tempo fa era considerato il capo della ‘ndrina di Vallefiorita, nel Catanzarese, ed era entrato in contrasto con il cosiddetto gruppo Catarisano considerato dominante a Roccelletta di Borgia, alcuni esponenti dei quali si erano presentati al cospetto di Grande Aracri per le doglianze del caso.
Che fine abbia fatto Bruno, è cronaca. Il 18 febbraio 2013, a distanza di quattro mesi dal summit di ‘ndrangheta e dal gesto alla Ponzio Pilato, lui e la moglie, Caterina Raimondi, furono assassinati brutalmente nella loro Vallefiorita secondo il collaudatissimo modus operandi della ‘ndrangheta, a colpi di fucile mitragliatore Ak47 kalashikov, arma da guerra che fu poi abbandonata dal commando nei pressi del luogo del delitto. Un kalashnikov abbandonato, roba che non si era mai vista in un paesino di duemila anime appena, segno tangibile di una volontà di dominio che non guardava in faccia neanche alle vittime innocenti. Venne freddata anche la moglie di Bruno, col quale stava uscendo da casa e che forse ebbe l’unica colpa di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.
Dopo anni di buio pesto, squarci di luce (il Quotidiano ne riferì, ndr) si aprirono grazie alle conversazioni intercettate dai carabinieri che hanno condotto l’inchiesta che portò all’operazione Kyterion e sono confluite anche nelle carte dell’operazione interforze Jonny. Intento della Dda di Catanzaro, che ha coordinato le due indagini, era quello di acclarare la sussistenza ed operatività dei due gruppi criminali stanziati nella fascia jonica catanzarese. Ora si aggiungono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che hanno consentito alla pm Antimafia Debora Rizza di ottenere riscontri per chiedere e ottenere, dalla gip Gilda Danila Romano, l’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il presunto esecutore materiale Francesco Gualtieri, 43enne di Borgia.
Quello che era certo già prima che parlassero i pentiti era che Grande Aracri quel Bruno non lo poteva proprio sopportare, stando al contenuto dei brani captati dagli inquirenti. Perché poco incline a rischiare. Troppo prudente. Troppo timoroso delle reazioni altrui per sposare il progetto “aziendale”, per così dire, di Grande Aracri, che voleva ampliare la sua sfera d’influenza infiltrandosi anche nel Soveratese attraverso le famiglie mafiose che operavano sotto la sua egida.
Cominciamo dal summit a casa del boss dove, nell’agosto 2012, arrivarono, oltre a Bruno, Pasquale Barbaro di Platì e Rocco Mazzagatti, esponente dell’omonimo sodalizio criminale di Oppido Mamertina. La discussione, alla presenza dell’aristocrazia della ‘ndrangheta, verteva su problematiche dell’area del Soveratese relative al controllo dell’attività illecita; in sostanza, si parlava della ripartizione territoriale delle ‘ndrine del Catanzarese.
C’era tutta una geografia mafiosa in via di ridefinizione. Equilibri e rapporti di forza che si stavano ridelineando in seguito all’irruzione del potente boss di Cutro, secondo scenari già messi a nudo da varie inchieste antimafia. Le figure di riferimento erano tale “Salvatore di Roccelletta di Borgia”, ovvero Salvatore Abbruzzo, e lo stesso “Peppe Bruno”, il quale però sottolineava la competenza territoriale ad intervenire, ribadendo che in quelle zone vi erano dei problemi di sicurezza.
Nel corso della riunione, emersero contrasti sulla gestione dei proventi delle estorsioni nell’area di competenza di Bruno e il sospetto che quest’ultimo trattenesse per sè il denaro destinato al sostentamento economico dei detenuti riconducibili a clan che operavano nell’orbita del “locale” di ‘ndrangheta di Cutro. Altro dato, l’eccessiva prudenza dimostrata da Bruno circa l’opportunità che gli veniva offerta direttamente da Grande Aracri di “allargarsi” fino a Soverato. Bruno, infatti, si sarebbe mostrato parecchio attento a non entrare in conflitto con altri gruppi criminali, nonostante il beneplacito e l’aiuto offerto dal super boss.
Per esempio, in quell’occasione Grande Aracri chiese a Bruno di compiere un atto intimidatorio ai danni di una ditta di Crotone, che si stava occupando della posa di cavi elettrici, nel territorio ricadente sotto l’influenza della sua cosca; l’atto intimidatorio avrebbe avuto la finalità di indurre i titolari dell’azienda a rivolgersi al clan per pagare l’estorsione ed ottenere la tranquillità per l’esecuzione delle opere. In questo contesto, Grande Aracri avrebbe affermato che i proventi dell’estorsione dovevano servire per sostenere i sodali detenuti, e che ne aveva parlato anche con “Salvatore” di Roccelletta.
Ma Bruno era titubante, nel senso che si mostrava restio a compiere il grande passo, perché in quell’area era dominante il gruppo Sia. Cosa che, secondo la ricostruzione degli inquirenti, infastidiva Grande Aracri, tanto più che, invitato dagli altri partecipanti al summit ad arrivare almeno ad un accordo con l’altra organizzazione malavitosa, lui replicava affermando che «le cose da noi non sono chiare». Grande Aracri a quel punto avrebbe ravvisato la necessità di trovare un responsabile di zona che gestisse gli affari illeciti in quell’area e citava nuovamente «Salvatore», uno «che fa la cosa giusta». Ma Bruno eccepiva che il suo gruppo criminale non poteva espandersi a Soverato e replicava che non avrebbe rischiato di prendersi una condanna a «trent’anni di galera» reagendo in modo violento come suggeriva Grande Aracri.
E arriviamo al summit del 22 ottobre, sempre nella tavernetta, un seguito della riunione di agosto. Stavolta erano presenti, in rappresentanza della cosca di Roccelletta di Borgia, Francesco Gualtieri e Salvatore Abbruzzo, era assente il capo di Vallefiorita. Ma Bruno era il convitato di pietra. Perché Grande Aracri rappresentava ai suoi interlocutori di aver chiesto espressamente a Bruno come recuperare quei 50, forse 100 mila euro che dovevano essere destinati ai detenuti, per esempio controllando le attività sul litorale del Basso Ionio.
E iniziarono le lagnanze degli uomini di Roccelletta e di un altro partecipante al summit, Gennaro Mellea di Catanzaro, nei confronti di Bruno, sempre perché non si sarebbe adoperato per il sostentamento dei detenuti e delle loro famiglie secondo le direttive dall’alto. Abbruzzo si spinge a paventare l’ipotesi di eliminare Bruno – «gli sparo in testa», ipotesi in un primo tempo esclusa da Grande Aracri, che invita gli interlocutori ad incontrarlo «preparati in un certo modo», per sincerarsi meglio del suo comportamento.
E scatta il piano. Come “fumarsi” Bruno. Ecco i dettagli. I convenuti alla tavernetta di Grande Aracri avrebbero versato una somma di 5000 euro a Bruno, attendendo al massimo una settimana per verificare se questi li avesse consegnato ai familiari dei detenuti. Trascorso questo termine, avrebbero convocato Bruno al cospetto di Grande Aracri, il quale a quel punto avrebbe contestato le sue mancanze. La cosa certa era che misure drastiche per neutralizzare gli “anarchici” sarebbero state prese per riportare l’ordine nell’organizzazione, e che Grande Aracri avrebbe dato sostegno ai Catarisano. «Tenete presente che sarò sempre con voi, comunque vadano le cose…se qualcuno è un megalomane e vuol fare il capo supremo… è una cosa che non può andare».
Cosa sarebbe successo a distanza di qualche mese da quel battito di mani, lo hanno aggiunto i pentiti. Santo Mirarchi, referente della cosca Arena di Isola Capo Rizzuto a Catanzaro, per esempio sa che Bruno è stato «ammazzato da quelli della Roccelletta». Salvatore Danieli parla, invece, di un piano dei Catarisano per estromettere Bruno e addossare responsabilità ai Merlino, due fratelli dei quali furono uccisi proprio per simulare una vendetta. Francesco Mammone aggiunge anche il particolare dell’occultamento dell’arma del delitto presso un’azienda.
Ma è forse Massimo Colosimo di Cropani, figura emersa nel processo Borderland come referente emiliano della cosca Trapasso di San Leonardo di Cutro, a fornire gli elementi più pregnanti avendo condiviso un periodo di detenzione nel carcere di Terni con il presunto killer, che quindi si sarebbe tradito nell’ora d’aria. C’era anche Salvatore Comberiati di Petilia Policastro, detto “Sabellino”, che a quanto pare “stuzzicava” Gualtieri chiamandolo “zingaro”. «Tu mi chiami zingaro – sarebbe stata la replica – ma io di zingari ne ho sotterrati tanti».
Nella serie di delitti che si sarebbe attribuito, compiuti «sempre con l’appoggio di Nicola Grande Aracri», Gualtieri avrebbe incluso anche il duplice omicidio di Vallefiorita. «Mi raccontò che l’omicidio di Bruno e della moglie era per prendersi il potere sul territorio…siccome lui non rispettava, i soldi se li teneva tutti per lui e questa è stata la causa che hanno usato come scusa per farlo fuori, a lui e alla moglie».
Nel commando il pentito, sempre riportando la “confessione” di Gualtieri, include anche Abruzzo: «agivano sempre insieme e da soli» e precisa che le armi al gruppo le forniva il boss Rocco Anello di Filadelfia, detenuto nella stessa sezione del carcere. E aggiunge un particolare inquietante: «gli avevano lasciato il fucile davanti alla porta per sfregio… a dire chi comanda».
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