Massimo Rosi (mentre fuma) e i capi del “locale” di Legnano e Lonate Pozzolo
4 minuti per la letturaCIRÒ MARINA – Ora si capisce. Ora si capisce perché Massimo Rosi temeva per le rivelazioni del pentito Emanuele De Castro. «Anch’io rischio…sono in mezzo alla…parla anche di me… che sono capo società da tot anno a tot anno… non so manco io come sono uscito…dice che comandavo dal ‘98 al 2016… sono 10, 15 anni di cip e ciop». Nel corso di una delle conversazioni intercettate durante l’ennesima inchiesta contro la filiale lombarda della cosca Farao Marincola di Cirò, Rosi, 55enne esponente di rilievo del narcotraffico in Lombardia, nato a Legnano e residente a Busto Garolfo, poco distante dall’abitazione di Vincenzo Rispoli, il capo, oggi in carcere, del “locale” di ‘ndrangheta di Legnano e Lonate Pozzolo, faceva riferimento alle rivelazioni della gola profonda del clan.
Ed è proprio De Castro a dare il via all’inchiesta che ieri ha portato all’operazione “Hydra”, dal mostro mitologico con sette teste che una volta tagliate ricrescono. Ma il gip di Milano Tommaso Perna ha letteralmente smontato la tesi della Dda del capoluogo lombardo di una super associazione mafiosa composta da cosche di Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, della quale Rosi sarebbe stato il principale fautore, non ravvisando l’accordo stabile e duraturo tra le varie compagini criminali né il metodo violento delle intimidazioni tanto che le estorsioni sarebbero, a suo dire, o non gravi non provate.
L’inchiesta condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano prende le mosse dalla riorganizzazione del “locale” di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo (Varese), proiezione al Nord della casa madre di Cirò, si focalizza anche sulle famiglie calabresi degli Iamonte di Melito Porto Salvo e dei Romeo di San Luca, coinvolge le cosche della famiglia palermitana Fidanzati e gruppi gelesi e catanesi più il mandamento di Castalvetrano, con i fedelissimi dell’ex super latitante Matteo Messina Denaro, mentre sul fronte della camorra si focalizza sui presunti emissari del clan Senese, radicato in particolare a Roma.
Sono più di sette, però, le derivazioni criminali che nel corso di ben 21 summit censiti, tra il marzo 2020 e il gennaio 2021, avrebbero creato un’alleanza in cui le singole componenti hanno dato vita, sempre per l’accusa, a «un’unica associazione, all’interno della quale ciascuna componente mafiosa ha apportato capitali, mezzi (mobili ed immobili), risorse (anche umane), background, reti relazionali e quant’altro» per l’affermazione dell’egemonia nel territorio lombardo.
Sono state proprio le dichiarazioni del pentito De Castro, figura di vertice del “locale” di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo, arrestato nel 2019 nell’operazione Krimisa condotta contro l’articolazione in terra lombarda della cosca Farao Marincola di Cirò, a dare impulso alla maxi inchiesta della Dda di Milano. De Castro sostiene che Rosi era stato fatto capo locale appena uscito dal carcere, e che trafficava in droga con i Barbaro di Platì, ma poi gli sarebbe subentrato proprio lui, il pentito. I rapporti con i Barbaro sono documentati dall’inchiesta “The Hole” e a quanto pare Rosi utilizzava un beauty center come copertura per i traffici.
Ma la novità è che proprio il monitoraggio di Rosi avrebbe consentito di rilevare la frenetica attività di ricostituzione del “locale” di Legnano e Lonate Pozzolo attraverso il coinvolgimento di storici sodali come Pasquale Rienzi, Giacomo Cristello e Pasquale Lentini, l’affiliazione di nuovi gregari e l’inserimento organico in un più ampio sodalizio comprendente strutture mafiose calabresi, siciliane e romane ruotanti attorno all’imprenditore agrigentino Gioacchino Amico. Rosi è uno degli undici arrestati a fronte di 153 richieste di misure cautelari.
Il gip Perna non condivide la tesi della pm Alessandra Cerreti della creazione, da parte di Rosi, di «un sistema mafioso di tipo trasversale che contiene al suo interno le componenti criminali di stampo mafioso, ‘ndranghetista e camorrista presenti sul territorio lombardo». Sarebbe stato un unicum nella storia della criminalità organizzata italiana, ma non è detta l’ultima parola perché la pm farà ricorso al Tribunale del riesame.
Minimalista il responso del gip, secondo cui Rosi «ha agitoso prattutto nel settore del narcotraffico, quale componente apicale della locale di Legnano – Lonate Pozzolo, talvolta interagendo con singoli esponenti di altri gruppi». «Giammai, invece, potrebbe sostenersi che i soggetti che oggi sono indagati nel presente procedimento, sono stati animati dall’intenzione di contribuire alla prosperazione di un sistema criminale più ampio di quello direttamente riconducibile alla famiglia di appartenenza del singolo affiliato» osserva sempre il gip.
Proprio la componente ‘ndranghetista, e all’interno di questa quella del “locale” di Legnano e Lonate Pozzolo, è numericamente la più consistente di questo presunto consorzio tra le mafie in Lombardia. Il capo indiscusso era in carcere, e quindi al reggente Rosi viene affidata la campagna di ricerca di nuovi sodali attraverso aggregazioni con altre compagini criminali. Sarebbe stato lui a intrattenere i rapporti con le altre realtà mafiose, e in particolare con Giuseppe Fidanzati, Pietro Mannino e Gioacchino Amico, dopo aver ristabilito “come ai vecchi tempi” la legge del clan, avvalendosi di una figura come quella di Cristello. Uno che, ignaro di essere intercettato, diceva: «Quando c’è Cristello alla locale di Legnano tutto a posto… da 40 anni faccio questa vita… quando avevo 16 anni… ne ho 58».
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA