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Nicolino Grande Aracri in una immagine di archivio

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L’ombra di Grande Aracri sull’omicidio di Franco Papaleo ucciso a Isola nel ‘94 «“Mano di gomma” aiutò i Nicoscia inviando killer per fermare l’ascesa di un emergente»

CUTRO – Potrebbe avere un altro omicidio sulla coscienza, il boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, il capo crimine ergastolano che si era messo in testa di fondare una “provincia” di ‘ndrangheta paritetica a quella di Reggio Calabria. Il pentito Salvatore Cortese, ex braccio destro del boss di Cutro, racconta che l’omicidio di Franco Papaleo, assassinato in un agguato mafioso il 16 settembre del ’94, fu compiuto con l’appoggio dei cutresi dai Nicoscia di Isola Capo Rizzuto. «Una pulizia interna», racconta il collaboratore di giustizia al pm della Dda di Catanzaro Domenico Guarascio, che ha coordinato le indagini, condotte dalla Dia, sull’omicidio di Giovanni Vatalaro, sfociate l’altro giorno nell’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il 69enne di Isola Mario Esposito, peraltro già detenuto.

“Pulizia interna” nel senso che l’omicidio di Papaleo potrebbe essere riconducibile a un regolamento di conti all’interno della stessa cosca di appartenenza. Risolto, dopo 32 anni, quello che sembrava destinato a rimanere un cold case (il delitto Vatalaro risale al 23 febbraio ’91), le rivelazioni di Cortese, uno dei pentiti ascoltati dagli inquirenti, potrebbero fare luce anche su un omicidio “collegato”, poiché Papaleo, allora personaggio emergente negli ambienti della criminalità organizzata locale, avrebbe agito in concorso con Esposito per assassinare Vatalaro al finto di posto di blocco inscenato nei pressi del rione Fondo Gesù. Proprio in seguito all’uccisione di Papaleo, molto vicino a Esposito, questi si era “defilato”, si era cioè allontanato dalla ‘ndrangheta, almeno svestendo i panni del killer per poi dedicarsi agli affari, anche fuori regione, magari con l’appoggio dei clan quando serviva.

«Defilato» è il termine usato dal collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, uno che conosceva bene Esposito perché facevano parte entrambi del commando che negli anni di piombo pattugliava Crotone alla ricerca di obiettivi di una cosca avversa da eliminare. C’era una guerra di mafia, in città. Ed Esposito, raccontano sempre i pentiti, era un “azionista”. Cortese, invece, dice che Esposito si era «mezzo staccato» dopo l’assassinio del suo amico Papaleo. Ma su quel delitto spartiacque nella vicenda criminale di Esposito ora spuntano nuovi elementi. I rapporti tra le cosche cutresi e isolitane erano intensi e Cortese spiega che la cosca capeggiata dal boss Grande Aracri fornì “appoggio” ai Nicoscia tant’è che il pentito indica tra gli autori del delitto Lino Greco di San Mauro Marchesato, storico componente del gruppo di fuoco del clan, e Rosario Curcio di Petilia Policastro, altro alleato dei cutresi.

Siamo agli inizi degli anni Novanta. Cortese inquadra Esposito, insieme allo stesso Papaleo e a Domenico Riillo, altro pezzo da novanta delle cosche isolitane, tra gli “azionisti” della cosca Arena. Con loro c’era anche Pasquale Nicoscia che era «tutto un gruppo, in un certo senso». La «rottura definitiva» tra i Nicoscia e gli Arena avverrà qualche anno dopo. La storia processuale rivelerà che Pasquale Nicoscia e Grande Aracri, i boss emergenti, si erano federati per scalzare dal comando nei rispettivi centri di influenza le più blasonate, in senso criminale, famiglie di ‘ndrangheta degli Arena a Isola e dei Dragone a Cutro. Intanto quel gruppo di “azionisti” «si stava facendo quasi autonomo dentro Isola Capo Rizzuto», era «un gruppo rispettato, riconosciuto dalla ‘ndrangheta», sostiene Cortese.

Una delle azioni compiute da quel gruppo sarebbe stato proprio il delitto Vatalaro, anche in forza del rapporto di parentela tra Esposito e il boss crotonese Egidio Cazzato, il cui figlio Vittorio sarebbe stato ucciso proprio da Vatalaro, o almeno così si riteneva negli ambienti criminali. Ma quando Papaleo verrà ucciso, scatterà qualcosa in Esposito.

Viene ucciso, Papaleo, proprio nella fase della sua ascesa: gli avevano appena conferito la dote della “santa”, un grado elevato nella ‘ndrangheta, o almeno questo Cortese aveva saputo durante un matrimonio a Steccato di Cutro. La “novità” gliel’avevano “passata” proprio alla “tavolata”. In quegli anni l’amico di Esposito si stava facendo pure crescere la barba, e proprio mentre è in pole position nel panorama della criminalità organizzata locale a un certo punto cade. «Allora Mario Esposito si è mezzo staccato, ha capito qualche scarto là, che la cosa non andava bene, che c ‘era il rischio che potevano uccidere anche a lui perché quel gruppo là era autonomo». Papaleo, del resto, «stava prendendo molto piede perché era una persona capace».

Negli ambienti criminali si sparse la voce, inizialmente, che a freddare Papaleo erano stati componenti della famiglia Maesano, allora in guerra con gli Arena. Sul luogo del delitto pare fosse stata fatta ritrovare una maglietta nera in segno di vendetta, ma, svela Cortese, era stata «una “tragedia” di Pasquale Nicoscia…perché si è voluto togliere una persona che poteva sorpassarlo, perché Franco Papaleo ormai aveva preso il volo, perché era capace». Cortese la definisce “tragedia” ma anche “operazione di intelligence”.

E poi aggiunge una considerazione su quella scalata alla gerarchia criminale. «Quando uno nella ‘ndrangheta spara… nella ‘ndrangheta si va avanti non perché uno è alto, basso, biondo, deve sparare, si va avanti solo a omicidi, più ad azioni partecipi e più ti alzi e più ti danno i gradi». Ma Papaleo viene fermato perché con la sua determinazione estrema rischiava di fare ombra agli altri aspiranti al comando.

Il 16 settembre del ’94, nella contrada Brasane della frazione Le Castella di Isola, lo trovano nella sua auto, trucidato con diversi colpi d’arma da fuoco che lo avevano raggiunto alla testa, al torace ed alle braccia. Sul posto furono rinvenuti 5 bossoli calibro 12 e 13 bossoli calibro 3,22. Braccio armato della cosca Arena, per conto dei quali gestiva alcuni villaggi turistici, Papaleo era molto vicino alla cosca Vrenna Bonaventura di Crotone. Tanto che Gianni Bonaventura, zio di Luigi, il collaboratore di giustizia, pare volesse uccidere Pasquale Nicoscia per vendetta. Ma Papaleo non fu vendicato. Anche il pentito Bonaventura conferma che, dopo l’uccisione di Papaleo, Esposito abbandonò la vita criminale dedicandosi ad attività imprenditoriali. Più o meno lecite.

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