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Antonio Nicaso

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PROFESSOR Nicaso, intorno al 19 luglio aleggia un’invocazione al silenzio da parte dei familiari di Paolo Borsellino, che l’anno scorso, in occasione del trentennale delle stragi, hanno rifiutato di partecipare a cerimonie in pompa magna perché dallo Stato attendono altre risposte. Forse ha più senso, come fa spesso lei con il procuratore Gratteri, trascorrere queste tragiche ricorrenze nelle scuole per parlare con i ragazzi di un periodo controverso della Storia repubblicana…

«Sono passati 31 anni da quella strage che ha sconvolto la coscienza di molti. Sono passati 31 anni dalla morte di due grandi servitori dello Stato e di tanti altri uomini e donne che questo Stato avevano scelto di difenderlo. Eppure, dopo 31 anni, abbiamo ancora una mezza verità che non ci ha spiegato nulla sui depistaggi, nulla sul perché Borsellino non sia stato adeguatamente protetto dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone con la moglie e gli agenti di scorta. Falcone è stato ucciso in modo plateale a Palermo quando poteva essere ucciso a Roma senza fare molto clamore. Ma l’uccisione di Falcone non era prevedibile. Sapevamo tutti che era fra i nemici di Cosa nostra, lui stesso aveva messo in conto l’idea di morire, sapevamo tutti che sarebbe accaduto ma nessuno avrebbe potuto indicare il momento esatto in cui questo si sarebbe verificato. Borsellino, invece, capisce subito che i suoi giorni sono contati e lo dice a tutti. Va a Roma. Vuole capire, dare una svolta alle indagini su Capaci. Tutti sanno. Tutti conoscono questa inquietudine, questa amarezza, tutti sono consapevoli di questo conto alla rovescia che sembra segnare gli ultimi giorni della sua vita ma nessuno fa nulla per bonificare le zone che spesso frequentava».

Ci sono molte ricostruzioni su quello che accadde negli ultimi 57 giorni di Borsellino, e sono anche ricostruzioni di cosa non accadde. Per esempio, né il Csm né la Procura di Caltanisetta sentirono il bisogno di convocarlo dopo che aveva annunciato di avere delle dichiarazioni importanti da fare sull’amico e collega con cui tanto tempo aveva trascorso rinchiuso all’Asinara durante l’istruzione del maxi processo. Un’altra cosa che non accadde è la mancata bonifica dell’area di via D’Amelio in cui abitava sua madre al fine di rimuovere eventuali esplosivi. Non fu neanche intensificata la scorta a Borsellino, come se dopo l’uccisione di Falcone non fosse in pericolo. Quando, secondo lei, hanno iniziato a uccidere Borsellino?

«Dopo via d’Amelio ci hanno fatto credere che sarebbe stato possibile scoprire le dinamiche, i moventi, gli esecutori materiali di quella strage, grazie ad un collaboratore di giustizia che, come in tanti altri episodi eclatanti, è stato usato per nascondere la verità, per depistare le indagini. Noi oggi sappiamo che tutti erano a conoscenza del fatto che Borsellino stava per morire. Lui stesso ne era consapevole. Aveva scoperto qualcosa che, probabilmente, non era riconducibile solo a Cosa nostra ma anche ad altre entità che avevano colluso con Cosa nostra per ammazzare quelli che venivano considerati due magistrati capaci di andare oltre l’indagine ordinaria che, fino ad allora, era stata portata avanti per combattere la mafia. Oggi c’è chi sceglie di non partecipare alle commemorazioni, a quelle commemorazioni che, però, sono importanti perché questi sono lutti che ormai appartengono alla nostra memoria, non sono più lutti privati ma episodi che coinvolgono tutta la Nazione. Le commemorazioni sono importanti nella misura in cui la memoria diventa azione».

Alla vigilia dell’anniversario della strage di via D’Amelio, il ministro Nordio ha detto che il concorso esterno in associazione mafiosa andrebbe rimodulato. Salvatore Borsellino ha commentato che così si colpiscono Falcone e Borsellino sconfessando il loro lavoro. Ritiene che questo reato sia ancora uno strumento importante per contrastare i colletti bianchi che colludono con le organizzazioni mafiose?

«Non possiamo continuare a commemorare dei morti e poi smantellare la legislazione faticosamente costruita sul sangue di Falcone e Borsellino. Si crea così un’ipocrisia di fondo, nel voler commemorare grandi servitori dello Stato che avevano capito quali strategie usare nella lotta alla mafia. Il concorso esterno è un reato che non esiste nel nostro codice di procedura penale perché è un combinato disposto, è l’idea di mettere insieme due reati, il concorso e l’associazione a delinquere di tipo mafioso. È un’intuizione di Falcone che aveva capito che non ci può essere mafia senza concorso esterno, perché le mafie sono forti ma gran parte della forza la ricavano da chi agisce dall’esterno ed è funzionale al sodalizio criminale. Piuttosto di codificare quel reato, oggi, lo si mette in discussione come se i mafiosi fossero una realtà a sè stante, un gruppo armato e violento capace di condizionare da solo le sorti di un Paese. E, invece, non è così e Falcone lo aveva capito. Le mafie hanno bisogno di professionisti, politici, imprenditori, figure istituzionali che servono per garantire impunità, successo e longevità alle mafie. Questa memoria viene calpestata da chi mette in discussione il concorso esterno, da chi mette in discussione l’ergastolo ostativo e tutti quei reati che riguardano la corruzione, i reati amministrativi, che sono reati spia che vanno oltre l’estorsione e l’omicidio e che coinvolgono i colletti bianchi o certa politica che, ormai, non può fare più a meno del sostegno di certi sodalizi criminali. Oggi servono nuovi paradigmi. Questo paradigma centrato sul capitalismo selvaggio in cui viviamo è solo funzionale alle mafie. Se non riusciamo ad introdurre principi di solidarietà, di tolleranza, non arriveremo a nulla. Le mafie sono componenti strutturali del capitalismo. Servono alla grande finanza. Non parliamo più di gente che spara, che uccide o estorce denaro ma di persone che oggi hanno le competenze, acquisite grazie a professionisti, di estrarre cripto valute, di sfruttare piattaforme clandestine di trading. Stanno acquisendo conoscenze per gestire la nuova fase, quella della digitalizzazione. E se a questo aggiungiamo che, a breve, entrerà nelle nostre case la rivoluzione quantistica che metterà in discussione i codici binari, i sistemi di cifratura e tutte quelle che sono le transazioni commerciali che si fanno grazie alla cifratura, capirete che andremo in una nuova realtà e c’è già chi si sta attrezzando perché bisognerà mettere in piedi strutture post quantistiche quando ancora non è arrivata del tutto la rivoluzione quantistica. Il mondo sta cambiando velocemente ma in Italia discutiamo ancora di intercettazioni, di concorso esterno, di ergastolo ostativo mentre le mafie si attrezzano e sfruttano lo spazio cibernetico».

Non si ricorda abbastanza che fra quei corpi scaraventati fino ai balconi c’era la prima donna vittima delle scorte, Emanuela Loi, mandata allo sbaraglio a Palermo al suo primo incarico. Tutti ricordano, invece, la foto in cui Borsellino e Falcone sorridono, durante un convegno. Un’icona antimafia, divenuta peraltro un francobollo. Eppure quella foto venne scattata in una fase in cui Falcone e Borsellino venivano derisi, delegittimati, isolati. Forse, quando fu scattata quella foto, avevano già iniziato a ucciderli…

«Probabilmente, sì. Erano due grandi magistrati che avevano una visione chiara di ciò che serviva per combattere il fenomeno mafioso. Eppure non erano amati, erano dileggiati da tanti colleghi. Borsellino era schivo, Falcone era conosciuto in tutto il mondo. Aveva un profilo internazionale. Nella sede del Fbi c’è una statua che lo ricorda. Borsellino aveva una grande capacità di analisi. Questi due magistrati davano fastidio non solo alla mafia. Falcone veniva considerato dai suoi detrattori un carrierista, un giustizialista. Tutte le volte in cui ha provato a concorrere per posti importanti è stato sempre bocciato. È rimasto procuratore aggiunto ed era, forse, il magistrato più bravo di quella generazione, quello che aveva capito tutto, dall’idea di tracciare il denaro, entrare nelle banche, all’importanza di indagare sulle due sponde dell’Atlantico. Eppure, quest’uomo non è mai riuscito ad ottenere un successo professionale che non sia il maxi processo, non è riuscito a fare carriera come un magistrato del suo valore avrebbe dovuto fare. Falcone e Borsellino sono stati osteggiati anche dalle istituzioni, da gente che faceva di tutto per infangare il loro nome. Quando Falcone sceglie di lasciare Palermo per andare a Roma ha in testa una rivoluzione che porterà alla creazione della Direzione nazionale antimafia, una Procura capace di coordinare tutte le Procure antimafia. Aveva avuto buoni maestri come Caponnetto che aveva creato il pool antimafia. Caponnetto pensava che la condivisione delle informazioni avrebbe tutelato tutti. L’idea era buona perché nessuno può fare una lotta da solo rispetto a fenomeni transnazionali. Falcone crea poi la Direzione investigativa antimafia sul modello del Fbi. Falcone voleva un gruppo interforze da usare solo per la lotta antimafia. Ma oggi non è così. Ci sono tante strutture, il Ros, il Gico, lo Sco, tante strutture che Falcone voleva eliminare per crearne una sola capace di affrontare il problema della mafia. Dobbiamo riflettere su quello che è stato e proteggere, oggi, chi vuole fare e viene messo da parte con logiche corporativistiche, correntizie che fanno solo il male della magistratura e non servono a premiare quelle risorse che abbiamo e che sono spesso motivate proprio dalla passione di fare le cose e farle bene».

Un anno fa, all’insegna dello slogan “Mai più stragi”, con l’intento di scongiurare il ripetersi di ciò che accadde nel 1992, circa 150 sigle del Terzo Settore manifestarono a Milano come scorta civica di Gratteri, al centro di progetti di attentati. Certo, lui ha sempre respinto accostamenti con Falcone, che ritiene un gigante insuperabile, ma un’analogia c’è. Un anno fa, per esempio, non riuscì a divenire procuratore nazionale antimafia, così come Falcone non ce la fece ad essere eletto consigliere del Csm. Ma si parla di trame correntizie nel Csm anche adesso che Gratteri concorre per la guida della Procura di Napoli…

«Condivido quello che sostiene Nicola Gratteri. La sua figura non è paragonabile a quella di Falcone e Borsellino. Sono figure irraggiungibili. La generazione di Gratteri ha visto in quelle figure modelli da imitare. Se c’è qualcosa che sembra mettere sullo stesso piano Gratteri e Falcone è questa solitudine che entrambi hanno avuto, spesso, all’interno del Consiglio superiore della magistratura. Se noi facciamo mente locale, la collocazione naturale di Gratteri non era Catanzaro ma Reggio Calabria, la provincia su cui aveva sempre indagato. Era il naturale procuratore della Repubblica di Reggio. Ma non ce l’ha fatta, come è accaduto nel caso della Procura nazionale antimafia. Ora questa nuova opportunità che si profila lo porta a lasciare una terra che ama in maniera viscerale. Gratteri ha fatto, volutamente, il magistrato sempre in Calabria. Inizialmente andò a Locri. Dove nessuno voleva andare. Ha fatto tante cose con amore per una terra che lascerà con rammarico e dove sarebbe rimasto. Se fosse dipeso da lui».

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