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Le motivazioni della sentenza riguardante il braccio destro del boss Michele Oppedisano evidenziano l’attività della ‘ndrangheta in Brianza

MILANO – La ‘ndrangheta in Brianza opera come una sorta di “industria” della “protezione” per imprese e attività economiche e commerciali e professionisti. E spinge i suoi tentacoli dal Paper Market di Corrazzana fino a piazza Duomo.

È questa la fotografia che emerge dalle motivazioni della sentenza con cui il gup Guido Salvini ha condannato con rito abbreviato 4 persone, tra cui Domenico Larocca, braccio destro del boss Michele Oppedisano. Già coinvolto nell’indagine Infinito, Oppedisano è “affiliato alla locale di Erba” che è “espressione in Lombardia della cosca Pesce di Rosarno e rappresentante degli interessi economici della ‘ndrina” che fa capo allo zio “il boss Domenico Oppedisano, detto Micu, Capo Crimine dell’ndrangheta” di Rosarno.

L’ORGANIZZAZIONE DELLA ‘NDRANGHETA IN BRIANZA

Oltre a Michele, nel meccanismo della “estorsione-protezione” erano coinvolti anche un nipote omonimo di 42 anni e il figlio 23enne del boss, Pasquale, “fiduciario” della cosca e organizzatore del sistema smascherato dall’inchiesta delle pm della Dda Sara Ombra e Paola Biondolillo.

Il clan, questa volta, aveva messo nel mirino tre promotori finanziari. A loro la famiglia Oppedisano aveva proposto la propria “protezione” in cambio di una “richiesta base” inizialmente “fissata in 6mila euro mensili”, 2mila euro a testa. A garanzia dell’efficacia della “protezione”, Pasquale invitava le vittime a consultare i suoi “precedenti penali” su internet, una sorta di “pubblicità e garanzia per coloro cui la protezione è proposta e poi attivata”. Ma come sono finiti i tre professionisti nelle mani degli Oppedisano? “Dall’insieme delle dichiarazioni dei 3 promotori finanziari si ricava che questi siano stati chiusi in una doppia trappola”, scrive il gup.

I DETTAGLI DELL’INCHIESTA SULLA ‘NDRANGHETA IN BRIANZA

Al centro dell’inchiesta delle pm Biondolillo e Ombra ci sono 250mila euro che il commercialista di origine calabrese Nucera (non indagato) custodiva nella sede della sua società Take Off, con sede in piazza Duomo numero 16. “Il commercialista – si legge nella sentenza – era stato coinvolto in una complessa vicenda che aveva visto l’impegno dei 3 promotori finanziari». Questi avrebbero operato «per ottenere l’erogazione di un prestito per alcuni loro clienti francesi, operazione cui era accompagnata una fattura per la prestazione di servizi fasulli ed un bonifico di una somma di 250mila euro in favore di una società facente capo allo stesso Nucera».

Il professionista, che aveva la somma nel suo studio, “l’aveva tuttavia fatta sparire sostituendola, nelle scatole in cui si trovava, con del polistirolo”. Aveva poi accusato i tre promotori finanziari “di essere corresponsabili di tale sottrazione e aveva chiesto loro la somma di 50mila euro corrispondente alla parte cui avrebbe avuto diritto al termine dell’affare”. I professionisti a quel punto avevano chiesto consiglio a un cliente che “aveva consigliato loro di non pagare ma li aveva messi in contatto con gli Oppedisano affinché li aiutassero ad affrontare la pretesa di Nucera” e “affrontassero in loro favore il commercialista”.

LA CENA NEL RISTORANTE RICONDUCIBILE A GIUSEPPE SCULLI

Per cercare di trovare un accordo e comporre la questione avevano anche organizzato una cena “nel ristorante milanese riconducibile al calabrese Giuseppe Sculli, noto calciatore della Juventus ma il cui nome è più volte emerso in indagini su tali ambienti criminosi – si legge ancora – . Sculli, nel racconto di una delle vittime, avrebbe avuto il compito di ‘siglare’ l’accordo”. Quella cena, però, sembra più una “sceneggiata” che “un componimento bonario, costato comunque ai tre almeno 10.000 euro” delle pretese di Nucera. Anche dei 250mila euro si perdono le tracce. Per il gup si tratta di “una somma in effetti mai ricomparsa e probabilmente spartita tra Nucera e gli Oppedisano”.

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