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Morte e distruzione della guerra in Yemen

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Non si muore per lo scoppio di una bomba in maniera diversa dall’Ucraina nello Yemen, in Etiopia, nel Sahel, in Libia, in Nigeria, nel Camerun. E in Congo, Sudan, Haiti, Colombia, Afghanistan, Myanmar o altrove nel mondo dove si combattono conflitti di cui non si parla, oppure se lo si fa è giusto per riempire uno spazio sugli esteri.

L’inferno è uguale per tutti. Si crepa allo stesso modo sotto le bombe e si muore, attenzione, anche senza morire. Per decidere di lasciare il paese dove sei nato non occorre perciò necessariamente essere minacciati da un machete, da un’esplosione, rischiare ogni giorno che la tua casa ti crolli addosso, che un proiettile ti colga per strada mentre tra le sirene cerchi un riparo o guadagnando il portone della scuola.

Perché si muore anche vivendo senza un pezzo di pane, senza acqua, senza più un legno per scaldarsi, senza un letto, senza un’aspirina, un vaccino, e senza soprattutto un sogno da poter sognare. La gente scappa, rischiando la pelle, non solo dalla guerra ma da una vita che tale non può definirsi. Pochi hanno capito che queste persone ne hanno pieno diritto.

Quel diritto oltraggiato con ferocia ovunque, Italia compresa, intenta com’è, buona parte di essa, a classificare la sofferenza a seconda del colore della pelle per cui al nigeriano che sta alla porta del supermercato diamo i cinquanta centesimi di avanzo del resto della spesa ma mai gli apriremmo la porta di casa, e all’ucraino che fugge dalle bombe (come se in Nigeria o in Camerun, in Etiopia, non si morisse ogni santo giorno pur non essendo presenti, quelle aree, tutte le sere al telegiornale e non essendoci lì inviati con elmetto e assicurazione Lloyd’s) la spalanchiamo. Ovvio, giustissimamente.

L’Europa che tanto (ma nemmeno tanto) si sbatte per la violazione dei diritti della popolazione in Ucraina, che apre i corridoi umanitari, è la stessa delle brutali polizie di frontiera sulla Rotta Balcanica, attraversata da un’umanità strappata come carta da camino per quanto dolore ha dentro. Gli arrivi a Trieste, punto di passaggio verso nord, sono giornalieri e spessissimo dopo viaggi da incubo durati mesi, anche anni. Nella piazza di fronte alla stazione centrale abbiamo incontrato di recente giovani da ogni parte di quell’Est martoriato allo stesso modo dell’Ucraina. Piedi rotti, visi neri di lacrime, paura e fatica nei boschi, occhi senza orizzonte, derubati, picchiati, torturati, rispediti ai rispettivi mittenti.

Ragazzi che hanno ricominciato anche dieci volte quello che si definisce il Game, il gioco per tentare di salvarsi la vita avendo, loro, a differenza di anziani e bambini (ma arrivano anche tanti bimbi con le famiglie) la forza di azzardare e ben sapendo a che cosa vanno incontro tra il gelo, la fame, la bassezza umana. Che sta ovunque. Dove si combatte, e nella testa di tiranni come il siriano Assad o il russo Putin, o l’Hitler del Camerun, Paul Biya, che nel silenzio universale sta compiendo un genocidio contro le popolazioni anglofone che chiedono l’indipendenza da uno stato fascista assetato delle ricchezze di quel paradiso terrestre; ma anche dove non si spara un colpo e la vita è agiata.

Nella socialdemocratica Danimarca, per esempio, che ha dichiarato “guerra” all’immigrazione e negli ultimi mesi ha annullato centinaia di permessi di soggiorno. Giorni fa chi scrive ha raccolto il disperato appello di Asmaa e Omar, lei insegnante di arabo a Damasco, lui funzionario del ministero dell’Agricoltura, costretti sette anni fa a fuggire perché dissidenti e dunque a rischio arresto, tortura, morte. La fine che hanno già fatto alcuni loro parenti. Asmaa, cinquant’anni, è passata anche dal deserto e poi in Libia, quindi con suo marito e uno dei figli, il più piccolo, perché quello maggiore era già in precedenza fuggito in Danimarca, ha attraversato il Mediterraneo su un barcone. Ci ha detto che ha preferito rischiare di morire in mare piuttosto che arrendersi a una non vita, se andava bene, tra gli stenti (in Siria oltre il 90 per cento della popolazione vive sotto il livello minimo di povertà) o arrestata, torturata, uccisa.

Ebbene, oggi, dopo sette anni, quando per loro le cose cominciavano ad andare benino grazie a quel negozietto di prodotti arabi profumato di cardamomo e di pace, il governo di Copenaghen vuole ricacciarli indietro ignorando spudoratamente il fatto che quel paese, la Siria del macellaio Assad alleato di Putin e dei gruppi terroristici, per loro significa morte certa, dichiarando falsamente, pur di liberarsi di questi “pesi”, che sia invece ormai un posto sicuro.

Quando Amnesty International, se mai occorresse Amnesty International per farcelo capire chiaro e tondo, ha provato l’esatto contrario. E non è un posto sicuro, né dove si possa definire dignitosa una vita, l’Afghanistan. Con i suoi quasi 13 milioni di persone a rischio, come dire, su tutto. Più di un milione di bambini soffriranno quest’anno quella che l’Unicef definisce “malnutrizione acuta grave”. La fame, cioè. E l’inferno Yemen? Una guerra brutale, dove milioni di famiglie non sanno se arriveranno al giorno dopo.

Qui 120mila bambini sono stati uccisi o feriti gravemente, 2,2 milioni non hanno di che mangiare, 8,5 milioni non hanno un goccio d’acqua, 10 milioni non possono essere curati perché non ci sono strutture. Avremmo bisogno di un tomo volendo esaurire, per come si dovrebbe, un quadro mondiale di fatti che sono disgraziatamente, scelleratamente, scandalosamente misconosciuti. Dove vanno, ammesso che ci arrivino, i disperati che fuggono dagli inferni e, ribadiamo, anche non necessariamente in guerra, del pianeta? Perché a loro diciamo di no e agli ucraini diciamo di sì? Che differenza esiste, se non quella del colore della pelle e degli interessi economici che ci legano a questi o a quel paese oggi bombardato da Putin? Che cosa ci dà la Siria, per esempio? Nulla.

Ecco anche perché nessuno ne parla, e ai suoi rifugiati chiudiamo i corridoi, o li cacciamo dall’Europa come fa la “civile” socialdemocrazia danese. La collega Cornelia Isabelle Toelgyes, che è già stata ospite del Quotidiano del Sud, ci ricorda che il 2 marzo la Commissione Europea ha attivato la prima direttiva sulla protezione temporanea per i rifugiati dello Stato in guerra. “Iniziativa certamente lodevole – spiega – che prevede per i cittadini ucraini residenti in Ucraina, e ai loro figli e parenti stretti o coniugi e partner stabili, da prima del 24 febbraio 2022, un permesso di soggiorno valido un anno e rinnovabile di sei mesi in sei mesi fino a tre anni totali. Con possibilità di andare a scuola, lavorare, ottenere assistenza economico-sociale e cure mediche”.

Cosa lodevole, che sottoscriviamo. Peccato che “tutti i non ucraini non godono però degli stessi privilegi”, e che in Italia manchi ancora il decreto della Presidenza del Consiglio in tal senso e “per ora, lavoratori o studenti con permessi di breve durata, che fuggono dallo stesso inferno degli ucraini, non possono fare richiesta di residenza o di protezione temporanea”.

La verità, anche? Siamo razzisti. Perché continuare a mentire a noi stessi? Gli ucraini sono bianchi, gli africani sono neri, gli afghani, i pakistani, gli indiani olivastri. Quanti vengono dal Mediterraneo, quelli che riescono ad arrivare (le cifre sull’invasione sono chiaramente falsate dalle destre, ma anche dalle sinistre) come tutte le persone che partono dal Medio e lontano Oriente alle quali viene negato il passaggio alle frontiere, sono come tanti Ruby Bridges.

Era la bimba di sei anni che al suo primo giorno di scuola dovette essere accompagnata non dai suoi genitori, ma da quattro poliziotti armati. Ruby si incamminò da casa in mezzo a due ali di folla che le urlavano contro di tutto, e quando entrò in classe trovò soltanto un’insegnante, Barbara Henry, che fu la sua unica maestra. Il padre di Ruby fu licenziato, alla madre fu vietato di fare la spesa nei negozi, ai nonni fu tolta la terra. Per un anno quella bambina dovette portarsi il cibo dalla sua cucina per timore di essere avvelenata. E perché?

Perché era nera, ed era la prima bambina nera che entrava in una scuola fino ad allora riservata ai bambini bianchi. Quelle ali di folla inferocita e indifferente siamo noi, e in mezzo ad attraversare le nostre strade ci stanno tutti quelli che non sono bianchi.

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