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UN CALABRESE alla Nasa, l’agenzia aerospaziale americana. Da Roccella Jonica direttamente a Tucson, in Arizona, per inventare sonde, robot, prototipi e tutto ciò che serve all’uomo per conquistare ed esplorare il sistema solare.

Ci sono le mani e la testa di Roberto Furfaro, 44 anni, dietro alla recentissima scoperta dell’acqua su Marte. Anche a lui si è rivolto il regista Ridley Scott per girare il film campione d’incassi, The Martian, che racconta la storia di un astronauta, l’attore Matt Damon, rimasto solo sul pianeta e costretto a sopravvivere per mesi in un ambiente ostile fino poi ad essere salvato. E ancora a lui e al suo gruppo di lavoro dell’università dell’Arizona, a cui la Nasa appalta i progetti più complessi, è affidata la prossima missione della più importante agenzia spaziale del mondo: ovvero recuperare nello spazio un pezzo di asteroide e, per la prima volta della storia, portarlo sulla terra per studiarlo e capire di che materia è fatto l’universo.

No, non è fantascienza, è la storia vera, verissima di un calabrese che ce l’ha fatta e oggi è considerato uno degli scienziati più bravi al mondo nel campo dell’ingegneria spaziale.

Ci racconta la sua storia? Com’è arrivato in America, a lavorare per conto della Nasa?

«Sono nato e cresciuto a Roccella Jonica e poi mi sono trasferito a Roma per studiare ingegneria aeronautica con indirizzo spaziale. Poco prima di completare il mio ciclo di studi, con il sostegno del professore relatore della tesi, ho partecipato a un convegno scientifico a Torino, al quale era presente anche l’allora direttore della Nasa. Con un po’ di faccia tosta e nonostante il mio inglese incerto, l’ho avvicinato e gli ho chiesto di poter trascorrere un periodo di studi e di ricerche negli Stati Uniti. Con mia grande sorpresa mi ha risposto di sì e così, nell’ormai lontano 1997, sono partito per l’Arizona dove sono rimasto otto mesi all’interno della Nasa. Qui ho avuto la possibilità di lavorare a un progetto preliminare a una missione su Marte. Dovevamo realizzare il sistema di controllo di un robot in grado di studiare le risorse indigene. Nel 1998 tornai in Italia per laurearmi ma sono subito dopo rientrato in America per fare un dottorato di ricerca e da allora non sono andato più via».

Di cosa si occupa oggi? In cosa consiste il suo lavoro?

«Sono professore di ingegneria dei sistemi spaziali e direttori di due dipartimenti all’università dell’Arizona. A noi la Nasa affida la sperimentazione e l’esecuzione di una serie di progetti. Ad esempio, ora stiamo lavorando a un progetto molto impegnativo, che prevede un investimento di un miliardo di dollari, e che consiste nella realizzazione di una sonda da lanciare in orbita per due anni che avrà il compito di prelevare materia da un asteroide e riportarla sulla terra. Per la prima volta nella storia, elementi del sistema solare saranno analizzati nei nostri laboratori. Si tratta di blocchi che hanno almeno 4 miliardi di anni e grazie al loro studio capiremo tante cose non solo sulla mineralogia e la geologia dell’asteroide ma anche su come è nato il sistema solare. Il progetto della Nasa prevede che anche il centro di controllo sia affidato all’università dell’Arizona. Ci hanno provato senza successo i giapponesi e studi in questa direzione sono stati effettuati anche dal Politecnico di Milano. Noi, però, saremo i primi a realizzare questa missione. Ancora, siamo coinvolti in molti altri progetti, tra cui alcuni che prevedono la costruzione di serre per la produzione di cibo in siti marziani».

Allora, ciò che si vede a cinema nel film “The Martian”, con Matt Damon abbandonato sul pianeta e obbligato per sopravvivere a produrre per sé del cibo, non è fantascienza?

«Assolutamente no. Abbiamo dato diverse indicazioni durante le riprese del film. E’ possibile realizzare delle serre – il progetto si chiama Mars Lunar Greehouse – in cui produrre ortaggi, come patate, lattuga e ancora fragole. Il senso è quello di ridurre i carichi da terra per gli astronauti e mettere loro nelle condizioni di produrre almeno il 50% delle calorie necessarie».

Qual è il suo rapporto con la Calabria? Ha mantenuto un legame con le sue radici?

«Assolutamente sì. A Roccella Jonica vivono i miei genitori, molti familiari ed amici, e vengo in Calabria almeno una volta all’anno. Prima anche con più frequenza, ma ho una figlia di sei anni che ha appena iniziato la scuola, per cui i viaggi si sono per forza di cose concentrati nel periodo estivo».

Qual è il suo giudizio della Calabria e dell’Italia in generale?

«La Calabria è una terra amara e densa di contraddizioni: convivono il bello e il brutto. Ha le potenzialità e le intelligenze per crescere ma non riesce a farlo. Quanto a me, non posso dire di avere avuto in Italia e in Calabria brutte esperienze sul piano professionale. Ciò semplicemente perché, già prima della laurea a Roma, ho intrapreso la mia strada negli Stati Uniti, un paese di cui mi sono innamorato e che non lascerei mai. Ciò che posso dire, però, è che, quando giovanissimo ho deciso di trasferirmi in America, mi sono dovuto scontrare con non poche resistenze nel mio ambiente da parte di tanti che mi scoraggiavano, mi spingevano a non intraprendere un cambio di vita così clamoroso. Insomma, ho dovuto superare una mentalità conservativa. Tutto il contrario di ciò che accade in America, dove ti spingono a osare, a credere nelle tue ambizioni, a misurarti con le tue capacità fino a trovare una piena realizzazione professionale e umana».

Avrebbe mai potuto realizzare in Italia ciò che ora sta compiendo in America?

«Devo dire che in Europa e anche in Italia, il mondo dell’ingegneria spaziale è molto dinamico e quotato anche in America. Penso ad esempio al Politecnico di Milano, con il quale siamo in costante rapporto. Ci sono anche in Italia investimenti importanti per l’esplorazione del sistema solare. Il punto, però, sono le opportunità e le prospettive poco chiare. In Italia vige un sistema di baroni, di potentati che alla fine strozza le ambizioni. E spesso e volentieri chi in Italia si sente un luminare, in America non gode di alcuna considerazione scientifica. Siamo di fronte a circuiti chiusi e autoreferenziali. Negli Stati Uniti le cose funzionano diversamente e se vali, le prospettive le hai, eccome. Ecco perché non ritornerei mai in Italia, dopo aver conosciuto la libertà americana, mi sentirei un pesce fuor d’acqua».

Che consiglio si sente di dare a un giovane calabrese al culmine della sua carriera formativa?

«Gli direi di fuggire, di andare via dall’Italia perché altrimenti un ragazzo rischia di sprecare e veder evaporare il proprio talento. Ho, per alcuni versi, una visione radicale: sono convinto che per poter cambiare è necessario un momento di crollo, di collasso del sistema, in modo che si possa ripartire dall’inizio. Soluzioni al ribasso o di compromesso non penso siano efficaci. Lo misuro sulla mia pelle. Sono stato invitato una volta dall’Unical ma, per il resto, non sono mai stato “sfruttato” dalla mia terra, eppure il mio lavoro mi porta a contatto con ambienti e personalità prestigiosi che qualcosa di interessante e nuovo alla Calabria avrebbero potuto dare. La mia vita va avanti lo stesso, né io ricerco spazi di visibilità nella mia regione: dico soltanto che si sarebbe potuto attivare qualche meccanismo “restitutivo” e ciò non è avvenuto e penso sia un peccato».

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