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PETILIA POLICASTRO (KR) – Carlo Cosco aveva «maturato negli anni» il proposito di uccidere la testimone di giustizia Lea Garofalo, strangolata, bruciata e sepolta in un campo vicino Monza nel novembre 2009, e i suoi intenti erano «a conoscenza di terzi», come riferì il pentito Angelo Cortese, che in carcere apprese del progetto di morte. Si conoscono le motivazioni per le quali, nel dicembre scorso, la Corte di Cassazione ha fatto diventare definitive, rigettando i ricorsi difensivi, quattro condanne all’ergastolo e una a 25 anni di reclusione, confermando la sentenza d’Appello per l’omicidio di Lea, scomparsa nel nulla a Milano e ritrovata cadavere in seguito al pentimento di uno degli imputati condannati in primo grado.

In particolare, non è stata ritenuta credibile la versione proposta in aula da Cosco che, nel tentativo di scagionare i fratelli, si attribuì l’omicidio e quindi il ruolo di esecutore materiale e non di mandante.

A contraddire una simile tesi sono, secondo la Suprema Corte, l’«organizzazione da parte del Cosco di precedenti ricerche della Garofalo a Bergamo e Perugia, cui è stata data giustificazione inverosimile, nonché il numero dei soggetti coinvolti nel progetto le concrete modalità esecutive», delle quali peraltro riferisce «dettagliatamente» il pentito Carmine Venturino. Nel maggio 2013, la massima pena fu confermata in Appello per Carlo Cosco, ex convivente della donna, per il fratello Vito, per Rosario Curcio e per il salernitano Massimo Sabatino, l’unico non petilino del gruppo. Mentre fu ridotto a 25 anni l’ergastolo inflitto in primo grado al pentito Carmine Venturino. L’unico assolto in Appello, con la formula che richiama la vecchia insufficienza di prove, era stato l’altro fratello del regista dell’operazione, Giuseppe Cosco, che non compariva nel processo in Cassazione. In primo grado gli ergastoli inflitti, nel marzo 2012, furono sei.

Attraverso il suo legale, Carlo Cosco aveva chiesto nuovamente di escludere l’aggravante della premeditazione proponendo la tesi già fornita nel processo d’Appello, di un “raptus”. «Lea mi aveva fatto impazzire», disse Cosco ammettendo parzialmente i fatti e chiedendo pertanto di assolvere i fratelli. Ma il pg non aveva ritenuto attendibile questa versione e alle richieste di condanna si erano associati anche gli avvocati di parte civile, ovvero della figlia di Lea, Denise, della sorella Marisa e del Comune di Milano. Il legale di Marisa Garofalo, l’avvocato Roberto D’Ippolito, in particolare, si era rifatto alle motivazioni della sentenza di secondo grado evocando un patto tra i Cosco per limitare i danni e ottenere le assoluzioni dei coimputati di Carlo. La sentenza passata in giudicato insiste anche sulla «continuità» con i fatti di Campobasso, ovvero il tentato rapimento di Lea del maggio 2009 per il quale sono stati condannati Carlo Cosco e Sabatino. Ecco perché i giudici ripercorrono la vicenda. La vittima, figlia di un boss ucciso in una faida quando lei aveva soltanto otto mesi, si era allontanata dalla frazione Pagliarelle di Petilia per andare a vivere a Milano con Carlo Cosco, coinvolto in un traffico di stupefacenti, col quale, nel maggio ’96, interruppe la relazione. Quindi si era stabilita a Bergamo negando a Cosco di incontrare la figlia Denise.

A Bergamo Lea subì l’incendio dell’auto e dell’episodio sarebbe stato responsabile un fratello di Carlo, Massimo; un nuovo incendio lo subì due anni dopo e in seguito alle vessazioni decise di collaborare con la giustizia. Nel 2002 entrò nel programma di protezione da quale fuoriuscì, dopo una complessa vicenda fatta di ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, nel 2006, per poi rientrarvi nel 2008 e uscirne definitivamente nel 2009. Il tentato sequestro Lea lo subì proprio quando, appena fuoriuscita, per la seconda volta, dall’egida dello Stato, era temporaneamente tornata a Campobasso.

Le dichiarazioni di Cosco, dunque, sono state ritenute inattendibili poiché «prive di sostanziale riscontro e contraddette dalle circostanze riferite da Venturino quanto al movente dell’omicidio». Venturino, l’ex di Denise che si pentì dopo l’ergastolo in primo grado e fece ritrovare il cadavere che, stando alll’impianto della sentenza della Corte d’Assise di Milano si riteneva fosse stato sciolto nell’acido, ha, del resto, raccontato le modalità agghiaccianti della trappola che servì a portare a termine il progetto per l’eliminazione della donna, che aveva fatto rivelazioni sull’omicidio di Antonio Comberiati commesso a Milano nel maggio ’95 incolpando Giuseppe Cosco.

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