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COSENZA – Tensioni in aula e una dura contestazione da parte del’avvocato Ornella Nucci, in rappresentanza delle parti civili, nei confronti del presidente della Corte. Dopo sei anni di udienze, rinvii, eccezioni e quant’altro, il processo per l’omicidio di Roberta Lanzino volge al termine non senza polemiche. L’individuazione del Dna e l’esclusione che questo possa essere riconducibile agli imputati ha scatenato un nervosismo tra le parti che si sono ritrovate stamane nell’aula del tribunale di Cosenza.

L’astensione della Camera penale, con l’adesione degli avvocati, ha fatto il resto, facendo saltare l’udienza. Per questo, al presidente non è rimasto altro che fissare le prossime tappe. A partire da quella del 19 marzo, quando in aula arriveranno i carabinieri del Ris, quindi, salvo ulteriori richieste, la discussione fissata per il prossimo 1 aprile. 

LE ANALISI DEL DNA E LA SVOLTA NEL PROCESSO

Una tempistica che, però, non è piaciuta all’avvocato Nucci che ha contestato aspramente l’accelerazione voluta dal presidente. Uno scontro a tratti molto acceso che, comunque, non ha cambiato la tabella di marcia. 

Il processo per l’assassinio di Roberta, d’altronde, dovrà ripartire da zero per dare un nome al Dna. Dopo 27 anni dal barbaro delitto di Roberta Lanzino l’unico punto certo è dunque un profilo genetico, che tra l’altro ha rischiato seriamente di non uscire mai fuori. E’ infatti rimasto chiuso in una scatola dal 1988 e solo il caso ha voluto che si mantenesse integro. 

E’ stato prelevato dai Ris (che non si sono tirati indietro nel criticare chi prima di loro ha avuto sotto mano i vari reperti) dal terriccio che si trovava sotto il cadavere della povera ragazza e che è stato repertato e sigillato. Solo a novembre tale scatola è stata riaperta, con gli esperti che hanno isolato il Dna del presunto assassino. Lo hanno estratto dalle tracce di sperma confuso al sangue di Roberta. Quindi lo hanno comparato con quello dei principali indiziati, ossia l’attuale imputato Franco Sansone e (tramite tampone salivare sui familiari) lo scomparso Luigi Carbone.

Il risultato, come ormai noto, è stato negativo. Di fatto Sansone e Carbone con questo delitto, almeno per quanto riguarda gli esami fatti sul terriccio, non c’entrerebbero nulla. E senza nome resta dunque il Dna isolato. 

Questa mattina gli stessi esperti del Ris, ossia il maggiore Carlo Romano e il maresciallo Giovanni Marcì, avrebbero dovuto relazionale sui loro risultati dinanzi alla Corte di Assise di Cosenza, presieduta dal giudice Antonia Gallo. Ma tutto è saltato per la decisione degli avvocati di aderire allo sciopero indetto dalla Camera penale. 

Sarebbe stato interessante scoprire a “caldo” le reazioni ufficiali delle parti dinanzi a questo vero colpo di scena, destinato a far crollare l’impianto accusatorio. Quest’ultimo si regge infatti sul presupposto che Franco Sansone e Luigi Carbone abbiano appunto violentato e ucciso Roberta e che due mesi dopo Sansone, insieme al padre Alfredo e al fratello Remo (per questo imputati), abbia fatto sparire per sempre il suo presunto complice. Perderebbero di attendibilità pure le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Franco Pino, ex temuto boss di Cosenza, che – de relato però – ha chiamato in causa Sansone e Carbone. 

Fino a novembre, poi, non si è mai parlato di prove scientifiche. I Ris hanno criticato la mancanza di veri accertamenti in tal senso sin dal 1988. E così, dopo 27 anni, ci si ritorna a chiedere sul perchè quella scatola contenente la “firma” dell’assassino non sia mai stata aperta e perchè i tamponi vaginali non sono stati analizzati a dovere, per poi pure sparire nel nulla. Malgrado ciò alla fine un Dna è uscito fuori. 

Su tale risultato si è espresso il consulente delle parti civili, Luca Chianello. «La Procura di Paola, avendo questo importante punto di partenza, che è il profilo genotipico dell’assassino, dovrà riavviare – ha detto ieri all’Ansa – un’attività investigativa per individuare dei sospettati con cui eseguire la comparazione genetica. Questo caso – ha proseguito – presenta delle analogie con quello di Yara Gambirasio. Per il caso di Yara sono stati eseguiti 21 mila Dna, che corrispondono a milioni di euro spesi, facendo un’investigazione a tappeto per esclusione, ma quando si procede per esclusione vuol dire che non si hanno delle idee chiare e quindi soltanto per alcune vittime ciò è possibile. Per altre vittime, come nel caso di Roberta, ci sono state delle problematiche a livello investigativo già dall’inizio. Quindi, questo caso è partito male ed è stato costellato da una serie di lacune».

 

 

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