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PETILIA POLICASTRO – Ha ricordato il sacrificio di Lea Garofalo, la testimone di giustizia di Petilia Policastro uccisa nel novembre 2009, bruciata e sepolta in un campo vicino Monza, le cui rivelazioni per la prima volta sono confluite in uno sbocco processuale, per corroborare quelle di una serie di pentiti e una complessa attività d’indagine; e ha insistito sulla «brutalità» e «sanguinarietà» della cosca Comberiati, prima di chiedere cinque 14 pesanti condanne, cinque delle quali all’ergastolo e tre a 30 anni di reclusione. Il pm Antimafia Domenico Guarascio ha pronunciato una durissima requisitoria contro gli imputati del giudizio immediato scaturito dall’inchiesta che nell’ottobre 2013 portò all’operazione Filottete, che si sta celebrando col rito abbreviato davanti al gup distrettuale di Catanzaro e ha ad oggetto, tra l’altro, quattro omicidi. Lo “sbocco processuale”, si ricorderà, è quello che mancava quando il ministero degli Interni revocò la protezione a Lea.
Le dichiarazioni della testimone sono state valorizzate dai carabinieri come riscontro a una mole mastodontica di elementi d’indagine costituti da intercettazioni ambientali e rivelazioni di collaboratori di giustizia; elementi serviti a disarticolare il clan capeggiato da Vincenzo Comberiati, quello che dominava nel paese in cui la piazza centrale porta il nome di Filottete, il più abile degli arcieri achei, imponendo estorsioni e compiendo delitti. Ma tra gli imputati c’è anche un elemento di spicco della criminalità organizzata come il boss Nicolino Grande Aracri, presunto vertice di una “provincia” di ‘ndrangheta sgominata sul finire del gennaio scorso con 160 arresti in tutt’Italia, che, secondo l’accusa, con il gruppo petilino intratteneva scambi di killer. Per Grande Aracri, che deve rispondere dell’omicidio di Rosario Ruggiero, commesso a Cutro il 24 giugno ’92, il pm ha chiesto 30 anni.
Sono contestate nel processo anche le uccisioni di Mario Scalise (avvenuta il 14 aprile ’89), Romano Scalise (8 luglio 2007), Francesco Bruno (15 dicembre 2007). Ma l’inchiesta avrebbe fatto luce pure sulla cappa opprimente che portava i cittadinidi Petilia a chiedere scusa ai mafiosi, per i quali era normale non consumare al circolo Arci o giocare gratis alle slot machine, pena il pestaggio degli esercenti. C’è un dato di fondo da cui partono gli inquirenti nel delineare la storia del “locale” di Petilia Policastro, dagli anni ’80 ai giorni nostri. Lo stato di assoggettamento nella popolazione. Perché in paese si rischiava di venire minacciati anche per banali mancanze di rispetto. Addirittura non c’era neanche bisogno di chiedere, per gli esattori del clan. La più odiosa, forse, delle estorsioni contestate alla cosca, è quella ai danni del gestore del Red Dragon. Per Pietro Comberiati, figlio del boss, era normale giocare con i soldi anticipati, che non restituiva se non in caso di vincita. E quando i titolari del pub, Francesco e Luigi Bifezzi, pretesero le somme dovute, mente due sodali all’esterno del locale controllavano che non arrivassero i carabinieri, Comberiati avrebbe pestato gli esercenti e distrutto vevetrina scaldavivande e suppellettili per poi proseguire fuori con il taglio delle gomme dell’auto Opel “Vectra” di uno degli esercenti. Intanto, uno del gruppo si è pentito: è Domenico Pace, per il quale il pm ha chiesto 2 anni e 6 mesi. Folto il collegio difensivo, composto dagli avvocati Giuseppe Carvelli, Aldo Casalinuovo, Renzo Cavarretta, Rocco Corda, Antonietta De Nicolò, Sergio Rotundo, Gianni Russano, Salvatore Perri, Pietro Pitari, Mario e Tiziano Saporito, Gregorio Viscomi.
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