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CATANZARO – La Digos li aveva arrestati nel 2011 con l’accusa di addestramento al terrorismo. Ma la stessa Procura di Catanzaro, dopo averli tenuti sotto torchio per mesi e mesi, li aveva scagionati, chiedendo al gip di archiviare il caso. E oggi lo Stato li risarcisce per l’ingiusta detenzione subita. La motivazione? “Il terrorismo virtuale non è reato”. Ben poco di virtuale, tuttavia, ci sarebbe stato nel bombardamento, che, qualche mese fa, in Siria, ha dilaniato proprio uno di loro, uno dei tre magrebini finiti al centro della contorta vicenda giudiziaria finita lo scorso mese di luglio nell’archivio del palazzo di giustizia del capoluogo e tornata ora prepotentemente al centro dell’attenzione mediatica per le guerre religiose in corso dal Nord Africa al Medio Oriente. 

Così, mentre il Ministero si prepara a sborsare ben 180 mila euro (60 mila ciascuno) a favore dei tre magrebini dichiarati innocenti, uno di loro, Brahim Garouan, entra nella lista degli otto “jihadisti d’Italia” che risultano morti in battaglia. 

Una battaglia sanguinaria, dunque, non virtuale come quella giudiziaria, che aveva portato dietro le sbarre anche il padre di Brahim, ovvero Mohammed Garouan, l’Imam di una delle più importanti moschee della Calabria, quella di Sellia Marina, e un loro connazionale ventottenne, Younes Dahhaki, alla guida di una macelleria islamica di Gizzeria, nel lametino. 

I loro volti avevano fatto il giro del mondo. Le manette scattate intorno ai loro polsi, nell’ambito dell’operazione “Hanein” (tradotto in italiano “nostalgia”), pure. Insieme all’accusa di addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale. Attività che, secondo l’originaria tesi della Dda, rappresentata dai sostituti procuratori, Elio Romano e Carlo Villani, veniva portata avanti a pieno ritmo da tutti e tre i magrebini, a cominciare dall’Imam di Sellia Marina, che avrebbe usato la moschea per seminare odio e rabbia, mentre il figlio spaziava sul web, per diffondere il loro messaggio di morte. Così come sarebbe emerso dalle lunghe indagini partite nel 2007 su segnalazione dei servizi centrali antiterrorismo e dell’Aisi e portate al traguardo da Digos e polizia postale, che erano stati per ben tre anni con il fiato sul collo di tutti i potenziali terroristi che avrebbero ruotato intorno all’attività di addestramento portata avanti a Sellia Marina, con tanto di video realizzato per spiegare dettagliatamente le tecniche per diventare un cecchino, per realizzare una cintura esplosiva per azioni kamikaze e per preparare un ordigno per attaccare i mezzi militari dei Paesi occidentali in Iraq. 

Nel video erano riproposte anche immagini tratte dai siti islamici più oltranzisti, con l’esecuzione di alcuni militari iracheni per mano degli “insorti”, presumibilmente destinate a confluire nei 300 cd nuovi che la polizia aveva rinvenuto a casa di uno dei nove marocchini perquisiti e che, con ogni probabilità, avrebbero dovuto essere masterizzati per essere distribuite tra gli adepti. 

Era quello il terrorismo del nuovo millennio, avevano sostenuto i magistrati, salvo gli stessi ribaltare le proprie conclusioni nel momento di sollecitare l’archiviazione del fascicolo, alla luce di quanto aveva stabilito la Corte di Cassazione nel provvedimento con il quale, ad otto mesi dall’arresto, avevano rimesso i tre magrebini in libertà, confermando la decisione assunta dai giudici del Tribunale del riesame. I supremi giudici, infatti, avevano sancito, nero su bianco, che “il terrorismo virtuale, fatto di manuali e corsi di formazione, finalizzati a formare il perfetto terrorista, capace di puntare e colpire l’obiettivo da infallibile cecchino, così come di preparare e utilizzare l’esplosivo, per far saltare in aria i mezzi militari dei paesi occidentali presenti in Iraq, non è reato”. E che “nessun elemento in atti consente di poter asserire, se non surrettiziamente, che i tre indagati abbiano realizzato una scuola di preparazione ed esercitazione volta ad ammaestrare uno o più soggetti per la fabbricazione di armi o per il compimento di azioni terroristiche». 

Il gip del Tribunale di Catanzaro, Giannina Mastroianni, aveva così chiuso il caso, con il decreto di archiviazione, che, in maniera chiara ed inequivocabile, aveva scagionato i tre cittadini marocchini, compreso Brahim Garouan, innocente per la giustizia italiana (come fin dall’inizio avevano sostenuto i suoi difensori, avvocati Enzo Galeota e Vittorio Platì) e terrorista per le bombe islamiche. Insomma, una contraddizione che si fa strada all’ombra di un fenomeno rispetto al quale l’attenzione della Centrale di polizia antiterrorismo (Dcpp) non cala, tanto che in tutta Italia è stato deciso di tenere sotto controllo tutti i residenti (cittadini o stranieri) che risultano partiti per una guerra santa e che oggi combattono soprattutto in Siria e Libia.

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