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REGGIO CALABRIA – È «affetto da una patologia psichiatrica complessa consistente in disturbo di conversione somatica, disturbo depressivo, grave disturbo di evitamento a contenuto multiplo». Per questo il presunto boss della ‘ndrangheta a Milano Giulio Lampada andrà ai domiciliari. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame di Milano che gli ha concesso gli arresti domiciliari da scontare fra le mura della “residenza protetta” di Prà Ellera, vicino Savona. Nella struttura Lampada potrà scontare i 14 anni e 4 mesi di reclusione rimediati in appello per associazione mafiosa e altri reati.
Il risultato è stato ottenuto dopo una lunga battaglia legale, caratterizzatasi per una serie di perizie e controperizie, e condotta dall’avvocato Giuseppe Nardo. Per i giudici che hanno accolto l’istanza del legale la struttura sanitaria ligure, sarà in grado di offrire garanzie sia dal punto di vista sanitario che contenitivo. Giulio Lampada soffrirebbe di uno stato patologico, reso evidente da alcuni tentativi di suicidio. E insomma «incompatibile con la detenzione» da sostituire con un trattamento in comunità terapeutica psichiatrica contenitiva. In sintesi, il boss non sopporta il carcere, ma non tollera neanche – il tentativo è stato fatto nel luglio scorso – il ricovero in ospedale, dunque per lui l’unica soluzione è una comunità in cui possa essere curato, ma anche marcato stretto, per evitare di fare qualche altra pazzia. Una soluzione cui il legale – che in primo luogo in tal senso aveva fatto istanza – avrebbe preferito gli arresti domiciliari con imposizione del braccialetto elettronico, cassata però dai giudici, che hanno preferito le mura di una comunità terapeutica.
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Nel luglio scorso, il Tribunale della libertà di Milano, all’esito di una nuova perizia del medico-legale specialistico aveva disposto il trasferimento del boss nel reparto dell’ospedale di Voghera, rigettando l’opposizione della Procura, che voleva il ricovero in un centro clinico interno al circuito penitenziario. Una decisione in controtendenza rispetto a quella della Corte d’appello, che in precedenza aveva respinto la richiesta di scarcerazione per incompatibilità con il regime detentivo, presentate dal legale del boss sulla base di una perizia medico-legale redatta dal professore Francesco Bruno. Per i giudici, infatti, le condizioni di salute di Lampada erano perfettamente compatibili con il regime carcerario e il regime di eccezionale rilevanza delle connesse esigenze cautelari proprie della persona del condannato. Valutazione non condivisa dal Riesame, che ha invece permesso al boss il ricovero in un ospedale, dal quale era uscito qualche settimana dopo, senza però far registrare sensibili miglioramenti. Affetto da patologia psichiatrica riscontrata nel corso del ricovero, Lampada nel periodo di degenza sembrava aver dimostrato una vera e propria fobia per gli ospedali, di poco minore se non pari a quella sviluppata nei confronti del carcere. Un rifiuto che gli avrebbe impedito di assumere regolarmente la necessaria terapia, ma che a detta del perito indicato dal Tribunale dovrebbe essere facilmente superato in comunità.
Considerato il capo dell’omonimo clan, che da Reggio Calabria ha costruito su mandato dei De Stefano-Condello la propria fortuna in Lombardia, Lampada è stato di recente condannato a 15 anni e sei mesi di reclusione, solo sei mesi in meno di quanto disposto dai giudici di primo grado. Per i giudici, è a capo dell’omonimo clan che grazie anche al business delle slot machine aveva allungato i propri tentacoli su Milano, ma senza rinunciare ai solidi e altolocati agganci in Calabria. Nei guai, per i rapporti fin troppo cordiali con il boss sono finiti anche l’ex consigliere regionale della Calabria Franco Morelli e l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria Vincenzo Giuseppe Giglio.
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