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REGGIO CALABRIA – I carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria, nel corso dell’ultima settimana e in esecuzione di due diversi provvedimenti, hanno arrestato quattro presunti appartenenti alla ‘ndrangheta, e precisamente alla cosca “Iamonte”, operante nella zona di Melito Porto Salvo. I quattro sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere di stampo mafioso. I quattro arrestati sono Carmelo Iamonte, 49enne, di Montebello Jonico; Gianpaolo Chilà, 36enne, Bartolo Verduci, 28enne, e Francesco Verduci, 26enne, tutti e tre nati a Melito Porto Salvo. 

 

I primi due sono stati arrestati il 16 luglio, in esecuzione di un decreto di fermo di indiziato di delitto emesso dalla Procura Distrettuale di Reggio Calabria, convalidato poi dal gip che ha disposto la loro custodia in carcere. Gli ultimi due, invece, sono stati arrestati ieri, in esecuzione di un’ordinanza di applicazione di misura cautelare emessa dallo stesso gip sempre su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. 
 
L’INFLUENZA DELLA COSCA. Le indagini dei carabinieri, coordinate dalla DDA di Reggio Calabria, hanno permesso di confermare come la cosca, nonostante i colpi inferti recentemente con le operazioni “Crimine”, “Ada” e “Sipario”, abbia continuato a esercitare un’infiltrazione pervasiva all’interno della comunità, riuscendo a condizionarne le attività economiche e le scelte politiche. Alla base del provvedimento di fermo della Procura Distrettuale vi era il pericolo di fuga dei primi due indagati, al corrente del fatto che la magistratura avesse notizie da un collaboratore anche prima dell’esecuzione dell’operazione “Sipario”.
 
IL CAPO INDISCUSSO DEL CLAN E IL RUOLO DEGLI ALTRI ARRESTATI – Secondo l’attività di indagine, Carmelo Iamonte sarebbe il capo indiscusso dell’omonima cosca, mentre Chilà viene indicato dal collaboratore come un affiliato alla cosca stessa, appartenente alla “società minore” della cosiddetta ‘locale’ di Melito Porto Salvo. Quanto a Bartolo e Francesco Verduci, cugini fra loro, le indagini hanno dimostrato – viene fatto rilevare dagli investigatori – il loro presunto rapporto con la cosca Iamonte. E questo era già emerso da alcune conversazioni telefoniche captate nell’ambito dell’operazione “Ada”, di cui, successivamente, uno dei due conversanti – divenuto poi collaboratore di giustizia – avrebbe confermato contenuto, significato e rilevanza specifica rispetto a quanto già dedotto all’epoca dagli investigatori. In particolare, dalle indagini è emerso che Carmelo Iamonte si attribuisce da solo il ruolo di capo assoluto del sodalizio nella momento in cui afferma che, se lui fosse stato libero, non sarebbero di certo stati commessi i gravi errori nella gestione del sodalizio che avevano condotto all’operazione «Ada». Inoltre è partecipe dei destini della sua organizzazione, anche quando le vicende giudiziarie non lo toccano direttamente. Il carisma di Carmelo Iamonte Carmelo è tale che a lui si sarebbe rivolto perfino un avvocato sostenendo di non avere nessun imputato da difendere per il processo «Ada». Iamonte, secondo l’accusa, avrebbe anche avallato la credibilità del collaboratore Giuseppe Ambrogio nel momento in cui criticava i personaggi più autorevoli che avrebbero condiviso notizie riservate dell’associazione con lo stesso collaboratore, soggetti quali il fratello Remingo, Antonino Tripodi “barrista” e lo zio del collaboratore, Lorenzo Marino.
 
IL BOSS BONIFICA LA PROPRIA CASA DALLE CIMICI – Carmelo Iamonte era un boss che temendo l’arresto bonificava periodicamente casa sua per evitare l’installazione di microspie. Iamonte, prima dell’arresto era stato sottoposto a fermo, insieme a Gianpaolo Chilà. Provvedimento preso per il pericolo di fuga dei due che, secondo l’accusa, erano a conoscenza della collaborazione instaurata con gli inquirenti da Giuseppe Ambrogio, anche prima dell’esecuzione dell’operazione «Sipario». Nel corso dell’indagine è emersa, inoltre, la facilità con cui gli affiliati sostenevano di poter accedere ad informazioni riservate. Iamonte, inoltre, era consapevole di poter essere arrestato e per questo motivo provvedeva periodicamente alla bonifica della propria abitazione per evitare che fossero installate microspie.  
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