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L'arresto di Marcello Pesce

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La latitanza di Marcello Pesce gestita dal clan Mancuso, la rivelazione del nuovo pentito della ‘ndrangheta vibonese, Pasquale Megna

VIBO VALENTIA – Marcello Pesce venne catturato all’alba del 14 dicembre 2016 dopo un periodo di latitanza trascorsa nel territorio di Nicotera, favorito da elementi del clan Mancuso, anche dalla famiglia Megna, di cui Pasquale è collaboratore di giustizia dal febbraio di quest’anno. Ed è proprio lui a raccontare la vicenda al pm della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, e ai carabinieri nel corso di un interrogatorio del 14 aprile scorso, evidenziando come tutto il clan si mobilitò per agevolare la sua irreperibilità.

MARCELLO PESCE E LA LATITANZA A NICOTERA GRAZIE AI MANCUSO

Con sul capo una condanna a 15 anni per associazione mafiosa, l’ex capo indiscusso dell’omonimo clan di Rosarno, tra i più agguerriti della ‘ndrangheta, – era inserito nell’elenco dei latitanti più pericolosi. E ad aiutarlo a nascondersi è stato, come detto, anche Pasquale Megna con il quale aveva stretto un rapporto di amicizia tanto da raccontarli di “preso questa condanna per via della cugina Giuseppina che lo accusava di aver messo pace in una guerra di ‘ndrangheta in atto a Rosarno, ma senza aggiungere altro di specifico”.

Il ritratto che il pentito fa del latitante è quello di un “uomo intelligente a cui non piaceva parlare di questioni di ‘ndrangheta, non era come le persone di qui”. Ad ogni modo a portarlo nel terreno di campagna del collaboratore, sarebbe stato Pasquale Gallone alias “Pizzichiju”, di fatto gli occhi e le orecchie del boss Luigi Mancuso: “Fu mio padre a dirmi che era stato Gallone a portarlo da noi, perché lui era presente in quel momento mentre io arrivai dopo”.

La mobilitazione del clan Mancuso a sostegno della latitanza di Marcello Pesce

Ma Pesce a quanto pare si nascondeva a Nicotera già da 7-10 giorni “senza però trovarsi bene nelle abitazioni che gli avevano messo a disposizione. Era stato inizialmente a casa di Nino Gallone, padre di Pasquale e mi disse che non vedeva l’ora di scappare da lì perché in quel momento Mico “Nihji” (Domenico Mancuso, ndr) aveva lì la sua residenza in quella abitazione ed era molto pericoloso restare in quella casa. Marcello mi disse che poi, che tramite Pasquale Gallone e Salvatore Rizzo, gli avevano trovato una casa sul lungomare di Nicotera Marina, ma era stato anche a casa di Pino Gallone, fratello di Pasquale e padre di Nino”.

Il perché Pesce si trovasse a Nicotera era presto detto, a parere del pentito: “Sia lui che mio padre mi dissero che era per via di zio Luigi (Mancuso, ndr), l’unico del quale stava veramente a cuore” al latitante che definiva gli altri “roba da Barbara D’Urso e da Novella 2000″, perché avevano dieci mogli e figli sparsi qua e là, mentre zio Luigi era l’unico che rispettava veramente perché era diverso da loro”.

Il factotum del boss di Rosarno.

Megna si mise a completa disposizione del boss di Rosarno rendendo la casa accogliente, andando a fargli la spesa e finanche a giocargli la schedina al calcio scommesse: “Andavo da lui tutti i giorni – racconta – insieme ad OMISSIS per vedere di cosa avesse bisogno”. In quella abitazione Marcello Pesce si fermò un paio di mesi, lasciandola neanche una settimana prima che lo prendessero”.

La fuga di Marcello Pesce

Se ne andò perché “un giorno venne dei me OMISSIS e mi riferì che nel terreno di campagna di Leo Perfidio “u nanu”, avevano trovato telecamere grossissime, con le batterie grandi che puntavano una verso casa mia e una verso il terreno di campagna dove c’era Marcello. Mi disse di stare attento e allora fui io a dirgli che lì, nella mia casa di campagna, c’era Pesce che “si stava guardando”.

Il boss, quindi doveva andarsene da lì perché la situazione era troppo rischiosa per lui e così Megna si adoperò per prendere contatti con alcune persone per il trasferimento: “Chiesi ad OMISSIS un cappellino con la visiera e gli dissi che alle 22 ci saremmo visti nella strada che da Nicotera Marina, subito dopo il bivio della Valtur, va verso San Ferdinando”.

L’inganno e l’arresto.

Lo stratagemma per ingannare gli investigatori che avrebbero potuto visionare i filmati era semplice quanto curioso.

“A OMISSIS, che aveva la stessa corporatura di Pesce, feci indossare il cappellino e con lui tornai in auto alla casa di campagna dove ad attendermi c’era Marcello. Diedi a lui il cappellino e insieme uscimmo lasciando OMISSIS nell’abitazione. Lo accompagnai dopo il bivio della Valtur, sulla strada per San Ferdinando, da Pippo OMISSIS, all’incontro c’erano 6-7 macchine e ricordo che c’era una jeep Mercedes che ritengo fosse di Salvatore Rizzo. Pesce salì su una Panda. Dopo quattro giorni vennero a prendersi le valige e gliele consegnò mio padre: non so dire però a chi le abbia date. Il giorno dopo Marcello Pesce venne arrestato. Ricordo che in questi borsoni avevo messo delle bottiglie di vino bianco e qualcuna di champagne, pertanto, poi i Ris sequestrarono presso la mia casa di campagna, dopo il blitz per l’arresto di Marcello, qualche bottiglia della stessa marca per fare le verifiche”.

Per Pasquale Gallone l’esito della latitanza si spiegherebbe solo in un modo: “Lui iniziò a dire che nelle valigie le Forze di Polizia potevano aver messo qualche localizzatore”.

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Francesco Ridolfi

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