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Un giornalista con un trojan nel telefonino è una pericolosissima mina vagante. Se una Procura lo fa per evitare la morte di qualcuno, un attentato o una serie di gravissimi reati, la cosa può essere accettabile e comprensibile: se lo fa per motivi meno gravi, c’è puzza di abuso e di manipolazione della libertà di stampa.

NELLE scorse settimane, il nostro cronista Paolo Orofino ha scoperto che, nel dicembre 2019, per ben due mesi, il suo telefonino cellulare aveva ospitato un trojan “inoculato” (verbo meraviglioso per questo uso) su indicazione della Procura di Salerno (LEGGI LA NOTIZIA). Il trojan è come e peggio di un pedinatore invisibile che ti segue sempre dovunque vai e ascolta e registra quello che dici e con chiunque parli. Tenete conto che il nostro cronista non era indagato, ma che si limitava a frequentare per motivi di lavoro il dottor Eugenio Facciolla, sostituto procuratore a Catanzaro e poi capo a Castrovillari. In quel periodo, Facciolla era indagato dalla Procura di Salerno per corruzione in atti giudiziari. L’inchiesta (la 1649 del 2019) è stata successivamente archiviata. L’ipotetica corruzione a carico di Facciolla non riguardava questioni di grande portata: non c’erano di mezzo la criminalità organizzata o il terrorismo ma questioni non molto importanti che poi si sono rivelate infondate.

La legge permette l’uso dei trojan per reati al di sopra di un certo rilievo (la corruzione in atti giudiziari è tra questi) ma è chiaro che, a causa della sua pervasività ci sono dei limiti. In particolare, i trojan andrebbero usati come extrema ratio, quando altri strumenti di indagine non sono sufficienti, e non possono essere utilizzati per iniziare un’inchiesta. I magistrati più avveduti evitano di usarli, a meno di casi gravissimi, su persone non indagate perché è chiaro che i soggetti ai quali viene messo un trojan nel cellulare, diventano, loro malgrado, una sorta di agenti segreti al servizio inconsapevole della Procura.

Cosa c’è dunque che non va in questa storia? Almeno due aspetti: Paolo Orofino non era indagato e Paolo Orofino è un giornalista. Nella richiesta della Procura di Salerno di inoculare il trojan si dice che “Orofino Paolo riceve notizie riservate avvalendosi di soggetti non meglio identificati e con modalità non intercettabili per via telefonica…”. Cioè Orofino Paolo fa il giornalista di giudiziaria: parla con magistrati e con tanti altri soggetti cercando di conoscere informazioni e notizie, trovare carte pubblicabili per informare i cittadini (nei limiti della legge) di quanto sta succedendo. Nel caso di specie, va poi anche detto, che Orofino non scrisse quasi niente di quello di cui aveva parlato con Facciolla nelle conversazioni intercettate. La Procura di Salerno lo aveva descritto come una penna in mano a Facciolla, ma i fatti dimostrano che Orofino non scrisse mai dei temi legati alla vicenda del procuratore indagato.

Ma ci sono altre due questioni gravi: col trojan nel telefonino, Orofino veniva intercettato lungo tutto lo svolgimento delle sue giornate. Si sarebbe potuto far scattare l’intercettazione solo quando Orofino si fosse trovato (dovunque) in compagnia di Facciolla, ma era troppo complicato perché sarebbe stato necessario un pedinamento continuo. Quindi Orofino è stato intercettato mentre parlava con sua moglie, col suo direttore o con i suoi colleghi. L’altro punto di gravità ci riporta alla professione di Orofino. Un giornalista entra i contatto per motivi di lavoro con tanti e diversi soggetti: magistrati, avvocati, politici, medici, sportivi, artisti. Se gli inoculi un trojan nel telefonino, praticamente ti metti nelle condizioni di controllare tutte queste persone ed è come indagare (a livello nazionale o a livello locale, a seconda del giornalista intercettato) su tutto quello che succede di importante. Un giornalista ha il compito di cercare e raccogliere notizie anche riservate (nei limiti di legge) ma ha anche l’obbligo deontologico di non svelare le sue fonti e di tutelarle anche fino a subirne le conseguenze. Un giornalista con un trojan nel telefonino è una pericolosissima mina vagante. Se una Procura lo fa per evitare la morte di qualcuno, un attentato o una serie di gravissimi reati, la cosa può essere accettabile e comprensibile. Se lo fa per motivi meno gravi, c’è puzza di abuso e di manipolazione della libertà di stampa.

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