Renzo Aldi nel 1982 alla festa promozione allo stadio San Vito
5 minuti per la lettura«NON è mica difficile essere un bravo allenatore. Basta avere undici bravi calciatori ed è fatta». La toscanità di Renzo Aldi non è solo questione di accento: è filosofia chiara e limpida come le acque che bagnano la sua Orbetello. «Da casa mia si vede il mare fino a Follonica. Se vieni ti ospito». Volentieri, mister.
Aldi è l’allenatore che nel 1982 assume quasi in sordina la guida del Cosenza calcio e conquista una storica promozione. Storica perché insperata, quasi impronosticabile alla vigilia. La squadra è appena retrocessa dalla serie C1, la società che all’epoca si chiama As Cosenza fallita e in liquidazione. «Era retrocessa pure la società». Insomma, condizioni ambientali non tra le più favorevoli, eppure. «Eppure vincemmo il campionato. Ricordo che alla prima partita c’erano mille persone. All’ultima erano almeno venticinquemila. A proposito, bello lo stadio di Cosenza, no?».
Sì, bellissimo. Di quell’impresa ricorrerà a breve il quarantennale. Ricorrenza tonda, ma anche numero magico, considerato che è la stessa età di Aldi al suo arrivo in Calabria, allora fresco di patentino conseguito a Coverciano. E anche se oggi di anni ne ha ottanta, anche se adesso è al vento quello che, l’occasione è comunque propizia per una battuta: «Quando si dice: è passata una vita. In questo caso ne è passata mezza. Tanti ricordi però sono ancora vividi».
Quell’anno, l’ancora sconosciuto mister arriva a Cosenza con uno sponsor d’eccezione: «Gianni Di Marzio. Lo conosco a Coverciano e diventiamo subito amici. È lui che mi fa da sponda, conosceva un sacco di persone». La squadra non esiste più, è da rifondare. Dei vecchi calciatori sono rimasti solo Giancarlo D’Astoli e Alessandro Renzetti. «E quindi andiamo a Milano, al mercato, e lì c’è pure Gianni che mi consiglia. Prendo un sacco di calciatori giovani, molti prestiti. Ragazzi che venivano anche dalla serie B, ma che non avevano mai giocato in prima squadra». Ecco allora gli imberbi Claudio Luperto e Roberto Rizzo dal Lecce, il libero Guido Tosi dal Messina, l’esperto stopper Armando Rizzo e con loro Stefano Donetti, Carlo Della Volpe e Giuseppe Palazzotto e l’autoctono Alberto Aita. Faranno la differenza. «In porta c’era un giovanissimo Mario Ciaramitaro. In molti storcevano il naso. Non è all’altezza, dicevano. E invece è il miglior portiere che ho mai avuto».
Il migliore fra i migliori però Aldi se lo ritrova in casa: «Renzetti, anche lui inseguito però da mugugni e diffidenze. Di lui mi dicono: “Carattere difficile, ma molto bravo”. E caspita se era bravo. Poteva giocare in serie A, eppure pensa che volevano cederlo. Ho pensato: bah, ma questi so’ matti».
Le impressioni di partenza, però, non sono così ottimistiche. Aldi porta la squadra in ritiro a respirare l’aria di casa sua – a Marciano, in provincia di Grosseto – e dopo i primi allenamenti sbotta: «Oddio, qui mi sa che a 34 partite non c’arriviamo mica», ma è solo un temporale estivo. «Già nelle amichevoli si vedeva che giocavamo bene. Li ho messi bene in campo, mi prendo questo merito. Il resto lo hanno fatto loro». Quel Cosenza è una squadra che gioca senza centravanti di ruolo. Le uniche punte in rosa sono Cocci e Crispino, ma nessuno dei due farà il titolare. In attacco si alternano Palazzotto, Rizzo, Renzetti e Donetti. Movimento continuo, senza punti di riferimento per i difensori. L’eresia che non t’aspetti da chi, in diciannove anni di carriera – dall’Inter al Siena, passando per Grosseto, Spezia e Messina, di mestiere ha fatto proprio quello: l’attaccante. «Dici che ho inventato il falso nueve con quarant’anni d’anticipo? È possibile, ma nel calcio non s’inventa nulla. Quei ragazzi erano bravi, potevano giocare in ogni parte del campo».
Fuori casa i risultati sono altalenanti – alla fine le sconfitte saranno addirittura dieci – ma è soprattutto tra le mura amiche che si costruisce il successo finale. Quando gioca al San Vito, la squadra è un rullo compressore. Le vince quasi tutte, con lo stadio che va man mano riempiendosi fino all’apoteosi del 30 maggio 1982, l’ultima partita contro il Martina Franca, la vittoria per 2 a 0, il sigillo alla promozione. Di quel giorno resta agli atti la foto iconica di Aldi portato a spalla dai tifosi come una madonna pellegrina, privilegio accordato a pochi, come ai tempi di Oscar Montez. Sguardo ieratico, elegantissimo in blu e con un copricapo fuori stagione, il mister sembra godersi quel trionfo pregustando già altri successi futuri. E invece no. Finisce tutto quel giorno. «Cambia la società e quindi cambiano le cose. I nuovi dirigenti volevano dire la loro sulla formazione, ma sono io a decidere chi gioca e chi no. E allora è finita». Che poi dietro al suo addio vi fossero anche altre ragioni, altri dissapori più intimi, è storia vecchia di quarant’anni fa. «Mezza vita», ma quella si può fare a meno di ricordare.
E così nei giorni in cui la Nazionale si appresta a vincere il Mundial di Spagna, e Cosenza si ubriaca ancora di festeggiamenti, Aldi lascia la villetta di Andreotta che lo ha accolto per un anno, saluta tutti e se ne va. Tornerà in Calabria un lustro più avanti, ancora vittorioso in quel di Crotone, con al seguito i fidi Aita, Della Volpe e Renzetti. «A Cosenza sono stato davvero bene. Poi si vinceva, quindi stavo ancora meglio. Quando stavo per andare via un sacco di gente mi chiamava per dirmi di restare. Alcuni cosentini mi telefonano ancora oggi. L’ultimo sei tu. Oh, se passi da Orbetello sei mio ospite». Volentieri, mister. Molto molto volentieri.
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