Il Castello aragonese durante le prove dell'allestimento
3 minuti per la letturaCOSENZA – Giancarlo Cauteruccio protagonista della prima giornata di Primavera dei Teatri, il festival al via oggi a Castrovillari e che per una settimana attirerà le attenzioni di tutti gli appassionati di teatro contemporaneo. Il regista, da anni tra i protagonisti assoluti dell’avanguardia teatrale italiana, proporrà una sua installazione dal titolo “Alla luce dei fatti, fatti di luce”, un’opera definitiva di teatro/architettura di cinque atti simultanei. L’appuntamento è per le 18 al castello aragonese, uno dei luoghi scelti insieme alla Cattedrale dei Sacri Cuori, il Comune, l’ospedale, e palazzo Cappelli.
Cauteruccio, ci spiega di cosa si tratta?
«E’ un lavoro rientra in una mia nuova visione della funzione dell’arte scenica. Dobbiamo considerare che il Covid ha evidenziato un punto zero, al quale comunque secondo me eravamo già vicini. Il nostro comportamento ha subito una forte trasformazione. Non voglio dire positiva o negativa ma una forte trasformazione e ci viene richiesta una nuova visione del mondo».
E la sua visione qual è?
«L’arte è chiamata a interrogarsi su questo. E ancor di più il teatro, che fonda le sue radici sul rapporto tra corpo, tra l’uomo, la sua esistenza, lo spazio e la natura. Dobbiamo considerare che il teatro è nato nei luoghi aperti e ha continuato a manifestarsi nei luoghi aperti fino al post Medio evo, anche nel Rinascimento, abituandosi a questo confronto con la realtà».
Provo a sintetizzare. La pandemia che stiamo vivendo potrebbe far riscoprire al teatro una dimensione che il teatro stesso aveva dimenticato e che gli era propria?
«Esatto. Quando il teatro si è spostato nei luoghi chiusi, costruiti appositamente, ha perso il rapporto che deve avere con la città e con i veri protagonisti, cioè i cittadini».
Questa sua visione la vedremo a Castrovillari?
«Questo momento di Castrovillari vuole affrontare questa questione, questo rapporto tra città e teatro. Ci saranno cinque protagonisti: l’ospedale (finalmente scoperto amico, alleato, fondamentale), il castello aragonese (le radici del nostro passato), la scuola (la nostra crescita ma anche la cultura), la cattedrale (la relazione con qualcosa che vive dentro di noi), e il Comune (il punto di riferimento civico). Luoghi che recitano la loro parte simultaneamente attraverso luci e immagini».
Lei come ha vissuto il periodo del lockdown?
«In modo molto arrabbiato per l’exploit del teatro sui social. Una cosa pericolosa, si dimentica che il teatro è l’unica arte irripetibile. Bisognava iniziare a pensare a come il teatro deve misurarsi con le nuove tecnologie. Lo dice uno che lo intuì 40 anni fa».
Ma lo ha trovato un periodo ispirante?
«Ho recuperato il valore del silenzio, del vuoto, dell’assenza. Siamo riusciti a capire che avevamo esagerato col rumore creato. Ora bisogna ridisegnare la funzione e il senso dell’arte».
Ha capito, invece, qualcosa di nuovo?
«Più che di nuovo diciamo che ho trovato conferma che abbiamo bisogno di fondare la nostra esistenza sulla qualità e non sulla quantità. Basta numeri, entità che possono reagire e che ci siamo ritrovati come nemici. Piuttosto, abbiamo ritrovato come amico lo sguardo, che noi adesso cerchiamo per solidarizzare, per comunicare una forma sentimentalmente nuova. Prima non ci guardavamo, o ci guardavamo con sospetto. Chiunque poteva essere l’untore. Abbiamo invece capito che se ci guardiamo negli occhi ci nutriamo di vero nutrimento».
Per un calabrese fare questa installazione in Calabria, in un periodo difficile, ha un significato particolare?
«Sì. Vorrei iniziare a pensare a un ritorno alla terra madre e poter restituire qualcosa, la mia esperienza giovanile prima di andare a Firenze me la porto intensamente dentro».
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