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Il pubblico presente all'evento in ricordo di Mario Dodaro

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CASTROLIBERO – 18 dicembre 1982. È la prima data che viene in mente ai più quando si parla di Mario Dodaro. È il giorno in cui l’imprenditore viene colpito a morte davanti al portone di casa, in via Puccini a Castrolibero.  Poco tempo prima era stato avvicinato da esponenti della criminalità organizzata che gli avevano chiesto il pizzo e lui aveva opposto un deciso no.

Ma è un’altra data che la famiglia e la Fondazione che porta il suo nome ha deciso di ricordare: il 19 giugno 1939, il giorno della sua nascita. Ieri Mario Dodaro avrebbe compiuto 80 anni. E per celebrare questa ricorrenza i suoi cari hanno scelto di rinunciare al riserbo con cui negli anni hanno custodito i loro più intimi ricordi. Nel Media Center del Quotidiano del Sud hanno riunito familiari e amici per condividerli, attraverso le storie di chi ha percorso con lui un tratto di vita. 

E vita è la parola che risuona più forte in sala e più spesso. Più spesso anche di morte. Perché quella di Mario Dodaro – come dicono Sandro Russo e Paola Bottero, introducendo l’incontro – «è memoria viva, memoria che parla anche a chi non lo ha conosciuto».

Un documentario curato da Luciana De Luca, con immagini e montaggio di Francesco Didona, mette insieme storie e memorie per restituire alla sala un ritratto sfaccettato, e per alcuni versi anche inedito, dell’imprenditore. Un racconto a più voci che inizia quando Mario ha 7 anni e va a lavorare con lo zio Cicciotto, macellaio a Cosenza vecchia. Lì impara il mestiere e dieci anni più tardi è pronto ad aprire una sua macelleria. Va in banca a chiedere un prestito, a soli 17 anni, e lo ottiene, grazie a un amico che garantisce per lui. Le macellerie diventeranno poi tre nel giro di pochi anni e Mario scrive al fratello Peppino, emigrato in Canada, per convincerlo a tornare.

In Calabria, a Cosenza, potrà dare una mano a lui e agli altri fratelli. Il lavoro c’è e i guadagni sono buoni: «L’America è qua» scrive Mario Dodaro al fratello. Non ha neanche trent’anni quando, il 29 ottobre del 1968, inaugura a Castrolibero il suo salumificio e qualche tempo dopo acquista un prosciuttificio a Parma. È un imprenditore visionario, un datore di lavoro amato dai suoi dipendenti, un lavoratore – lui per primo – instancabile. Ma non c’è solo il lavoro – che pure ama – nella sua vita. A 17 anni ha conosciuto la donna che poi avrebbe sposato, Lisa Canonaco, due anni più piccola di lui e studentessa, a quei tempi, della Magistrale. La corteggia senza sosta, l’aspetta all’uscita da scuola, la conquista con i suoi occhi sinceri e il suo modo di fare. Da lei ha tre figli: Francesco, Antonella e Maria Gabriella. 

Francesco ha 17 anni quando perde il padre. Deve crescere in fretta per prenderne il posto in famiglia e in azienda. «Ho conosciuto papà ancor di più dopo la sua morte, dai tanti racconti degli amici e dei collaboratori. Era una persona straordinaria al di là di ogni immaginazione. Un uomo felice della vita e pronto a offrire sostegno morale e materiale a quanti gli erano accanto. Ci ha lasciato tanti segni, che hanno tracciato il nostro futuro» racconta nel documentario a Luciana De Luca. 

“Affamato di vita e di felicità” lo descrive anche la figlia Antonella. «Dava un tono gioioso a tutto quello che faceva. E mi ha trasmesso la consapevolezza che nella vita avrei potuto raggiungere qualunque obiettivo». Maria Gabriella, la più piccola della famiglia, il padre non lo ha conosciuto. Sa, però, che la notizia del suo arrivo – poche settimane prima del delitto – lo aveva reso pazzo di gioia. E sa anche che la immaginava del tutto uguale a lui. «In questi anni ho cercato di andare avanti con i suoi stessi valori – racconta – La sua eredità morale è forte e presente intorno a me, è memoria viva e palpitante, capace ancora di insegnare tanto».

Imprenditore illuminato, marito attento e premuroso, padre amorevole e presente. Ma anche uomo di straordinaria generosità. Sono tante, in questo senso, le testimonianze raccolte da De Luca nel documentario. C’è quella di Raffaele Aiello, dipendente di un’azienda agricola da cui Dodaro si riforniva. Un giorno lo incontra lì nel campo e gli dice: «Vedi se il padrone ti vende la terra, ti aiuto io. Devi prendertela tu e metterti in proprio». 

Giuseppina Scola, la sua segretaria, lo racconta come un uomo «semplice ma speciale». Ricorda il primo colloquio, al salumificio: «Si era reso subito conto che non avevo esperienza. Ma il fatto che fossi andata lì chiedendo a mia mamma di accompagnarmi, in qualche modo lo colpì. E decise di darmi un’opportunità».

Davide Sorrentino si occupava di una delle sue macellerie: «Partii per il militare. Al ritorno mi disse “ora è il momento che acquisti la tua macelleria”. Non mi sentivo pronto, pensavo di non essere capace… Alla fine mi convinse e comprai quella di piazza Zumbini».

«Definirlo generoso non basta – commenta Luciana De Luca, al termine della proiezione – Lui era pronto a cambiare la tua vita,  ad emanciparti dalla tua condizione di bisogno. Come se fosse sempre mosso dalla voglia di restituire agli altri quello che aveva avuto dalla vita».

Ed è anche per questo che nel dicembre del 1982 aveva ricevuto dal Quirinale l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. Non  è riuscito purtroppo a gioirne: era il 27 dicembre, poco più di una settimana dopo quella tragica e piovosa sera in via Puccini.

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