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“Io per te” di Luigi Francesco Gallo offre una prospettiva innovativa sul tema dell’educazione, intrecciando filosofia e pedagogia con un approccio profondamente umano. L’intervista all’autore.


COSENZA – “Io per te” di Luigi Francesco Gallo offre una prospettiva innovativa sul tema dell’educazione, intrecciando filosofia e pedagogia con un approccio profondamente umano. Attraverso un viaggio intellettuale ed emotivo, il libro mette in luce il valore delle relazioni autentiche, stimolando riflessioni che toccano insegnanti, studenti e appassionati di antropologia educativa. Per approfondire il messaggio e l’obiettivo di questo libro, abbiamo intervistato l’autore.

Cosa l’ha spinta a scrivere “Io per te”?

«Il messaggio principale, che ha reso la stesura del libro una sorta di missione civica, consiste nel tentativo di ridare dignità all’insegnante di sostegno. Sebbene il quadro normativo italiano in materia di inclusione sia ad oggi una sorta di faro luminoso a livello internazionale, ancora tanta strada c’è da fare, soprattutto sul versante della percezione sociale della disabilità e dell’insegnamento di sostegno. Esistono ancora sacche di resistenza verso i principi dell’inclusione e ci sono tanti giudizi negativi che circolano in ambiente scolastico circa il presunto ruolo secondario dell’insegnante di sostegno. Questi invece è un cardine dell’insegnamento e una risorsa per la scuola. Ma senza una missione di sensibilizzazione della società sul valore assoluto della disabilità questa “rivoluzione copernicana” auspicata nel libro è destinata a fallire».

Nel suo percorso professionale e personale, chi o cosa ha ispirato maggiormente il suo approccio educativo?

«Sicuramente l’autore di riferimento della formazione in quanto insegnante e educatore è stato Carl Rogers. Sebbene quasi tutti gli autori afferenti alla corrente della psicologia umanistica abbiano giocato un ruolo fondamentale nella costruzione della mia visione, Rogers fra tutti è stato quella che l’ha plasmata. I principi della sua terapia non direttiva (terapia centrata sul cliente) sono interamente trasferibili, con le dovute modifiche, anche all’insegnamento di sostegno».

Nel libro “Io per te”, sottolinea l’importanza della relazione autentica tra insegnanti e studenti. Un episodio che, nella sua esperienza, rappresenta questa “autenticità”?

«Ne racconto uno segnato dalla tragicità che lo caratterizza. Quest’anno, per lo scombussolamento delle GPS noto a tutti, la continuità didattica costruita negli anni scolastici 2022/23 e 2023/24 con lo studente che seguivo in una scuola superiore di Corigliano è stata bruscamente interrotta. Questo trauma, non elaborabile fino in fondo né da lui né dalla sua famiglia (che invano ha protestato), ha determinato il suo abbandono scolastico. Ciò testimonia non solo un fallimento del sistema di reclutamento scolastico (contraddizione stessa dell’inclusione) ma l’identificazione che lo studente ha realizzato tra il sottoscritto e la sua visione della scuola. Venuto meno io, è venuto meno il senso della scuola che lui aveva costruito. Aveva investito in questa relazione, si è aperto alla possibilità di fidarsi di qualcuno. Questo resterà per me un traguardo indelebile».

In “Io per te”, definisce l’insegnante di sostegno come “operatore dell’ascolto”. In che modo l’empatia e la comprensione, concetti centrali nel pensiero di Carl Rogers, possono trasformare la didattica, specialmente nel caso di studenti con disabilità?

«L’empatia è la capacità innata, neurobiologicamente determinata, dell’uomo di porsi al centro dello schema esistenziale della persona che gli sta di fronte, di sentire ciò che l’altro sente, di vestire i suoi panni emotivi “come se” fosse lui a viverli. Questa capacità innata è spesso messa da parte da persone che, per svariati motivi, sono sopraffatti da logiche diverse, più fredde e distaccate. Ebbene questo accade quando l’insegnante di sostegno non vive visceralmente la sua professione, quando la cura (non in senso clinico ma filosofico-esistenziale) non è la postura che assume nei riguardi degli studenti con disabilità. “Prendersi cura di” implica infatti un coinvolgimento profondo nell’animo dei nostri studenti, e senza di esso ogni altra strategia didattica diventa assolutamente inefficace. Ogni azione didattica, è questo uno dei messaggi del mio libro, è inefficace se non viene incastonata in una cornice di relazione autentica che rifiuta ogni atteggiamento medicalizzante e giudicante».

Qual è il modo più corretto per approcciarsi alla diversità in classe?

«I modi per approcciarsi alla diversità sono infiniti, poiché vanno impostati diversamente per ogni studente. Per una corretta azione didattico-pedagogica dobbiamo, nella quotidianità della nostra missione educativa, abbandonare lo sguardo medicalizzante verso la disabilità».

Crede che il crescente utilizzo della tecnologia rischi di compromettere la centralità della relazione educativa?

«Il principio etico che deve accompagnare il progressivo inserimento della tecnologia nelle nostre classi è la centralità dell’essere umano. La delega alle macchine è certamente possibile, anzi auspicabile, a patto che resti ferma la visione strumentale della tecnologia».

Un consiglio a chi oggi si affaccia al mondo dell’insegnamento?

«Chiedersi perché si è intrapresa questa strada, quale energia ed entusiasmo motiveranno, anno dopo anno, la missione educativa e se davvero esiste un sogno che anima la pratica quotidiana della professione. Se è vero che la valutazione fa parte dell’insegnamento, allora la prima verifica da somministrare è quella etica, ma i destinatari questa volta siamo noi insegnanti».

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