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Il libro del docente Giuseppe Ferraro riscopre il fenomeno dei Giornali di prigionia stampati dagli italiani prigionieri durante la Grande guerra


CAPITA a volte di inciampare in pagine di storia impolverate negli scrigni della memoria. Scoperte quasi casuali che forse anche per questo assumono un valore ancora più prezioso. È il caso dei giornali di prigionia durante la Grande Guerra su cui il docente Giuseppe Ferraro ha compiuto uno scrupoloso lavoro di ricerca cristallizzato nel libro “Giornali prigionieri – La stampa di prigionia durante la Grande Guerra”, Donzelli Editore. Ferraro è dottore di ricerca presso l’Università di San Marino. Dirige l’Istituto per la storia del Risorgimento italiano – Comitato provinciale di Cosenza, è dirigente dell’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea e deputato di storia patria per la Calabria e collabora con l’Università del Salento.

Tutto nasce dalle celebrazioni in occasione del centenario della fine della Prima guerra mondiale della Brigata Catanzaro. Ferraro si occupò della figura del capitano Bernardo Barberio, originario di San Giovanni in Fiore. Dall’archivio di famiglia emerse come l’ufficiale fu direttore del giornale di prigionia “Il Gazzettino di Wonbaraccopoli”.

«In ogni casa è talvolta possibile scovare dei veri e propri tesori storici. Si trovano magari in vecchi mobili che a loro volta spesso finiscono dal rigattiere», spiega il docente con un pizzico di amarezza. L’archivio di Barberio, fortunatamente, ha avuto un’altra sorte grazie al tenace lavoro di Ferraro. E pensare che qualcuno storse il naso quando il docente annunciò la scoperta dei giornali di guerra. Tra gli esperti e gli storici si fece notare che i soldati in prigionia avevano la possibilità di leggere i giornali ma il nocciolo della questione era rappresentato dal fatto che gli stessi militari erano protagonisti della stesura, della stampa (nella sua accezione generale) e della distribuzione dei giornali. Circostanze poco conosciute e per certi versi inedite su cui Ferraro ha focalizzato l’attenzione.

ITALIANI PRIGIONIERI

Durante il primo conflitto mondiale la prigionia fu un fenomeno di massa e globale. Furono imprigionati complessivamente circa 8 milioni e 500mila combattenti. Secondo alcune stime, gli italiani prigionieri nei campi dell’Austria-Ungheria e della Germania furono circa 600mila (il 3 per cento erano ufficiali), di cui 100mila morirono. Quasi la metà di questi erano caduti in mano nemica a seguito della disfatta di Caporetto.

I soldati italiani furono rinchiusi in circa 500 campi di prigionia, dislocati soprattutto tra i territori tedeschi e quelli austro-ungarici. I principali furono quelli di Mauthausen nell’Austria superiore; Sigmundsherberg in Bassa Austria; Theresienstadt, Katzenau bei Linz e Josefstadt, Milowitz in Boemia; Nagymegyer, Csòt bei Papa e Dunas zerdahely in Ungheria; Celle a Hannover; Meschede in Westfalia; Rastätte Ellwangen nel Baden; Württemberg, Langensalza in Turingia. «Alcuni di questi campi avrebbero recuperato una loro tragica funzionalità nella geografia concentrazionaria nazista», si legge in un passaggio del volume.

GIORNALI NEI CAMPI DI PRIGIONIA

In un lasso di tempo relativamente breve, ovvero la durate dei tre anni di guerra, si materializzò il fenomeno dei giornali di prigionia. L’analisi dell’autore si concentra su alcune di queste esperienze giornalistiche: “Il Gazzettino di Wonbaraccopoli” e “L’Attesa” del campo di prigionia di Dunaszerdahely in Ungheria, “L’Eco” del prigioniero», “L’Eco umoristico” e “L’Eco caricaturista”, “La Scintilla” e “La Scintilla caricaturista” del campo di Sigmundsherberg in Bassa Austria; “Italia” del campo di Ellwangen nel Baden in Germania, “Il Surrogato” e “Macchiette in prigionia” del campo di Theresienstadt in Boemia, “Varietas” del campo di Braunauam Inn in Alta Austria.

REDAZIONI, CENSURA E CARICATURE

Tali giornali potevano essere compilati a mano, disegnati, poligrafati, ciclostilati o stampati. Erano composti da un numero variabile di fogli, con uscite generalmente settimanali o mensili. L’aumentare delle richieste portò in alcuni campi a optare per la stampa meccanica e a scegliere inchiostri e acidi di migliore qualità. Ferraro spiega che la proverbiale inflessibilità asburgica lasciò spazio a un pragmatismo funzionale per quanto riguarda la censura. Per Vienna e Berlino era più saggio concedere una valvola di sfogo come la stesura e la distribuzione di un giornale invece che assumere un atteggiamento troppo rigido che potesse causare rivolte e fughe.

Erano concessi i riferimenti patriottici e, a differenza dei giornali di trincea, la pace (molto meno il pacifismo) era una tematica per nulla ostacolata dagli austroungarici. Senza dimenticare che la gestione dei campi di prigionia era affidata a ufficiali anziani e a soldati inabili nel fisico all’estenuante vita da trincea che non brillavano per solerzia in molti casi. Non mancavano le caricature satiriche sui sorveglianti che per dabbenaggine spesso non si accorgevano di essere i protagonisti di vignette e illustrazioni o, forse, semplicemente optavano per sorvolare sulle prese in giro.

In generale l’ironia attraverso le caricature nei giornali era dominante. Lo stemma del “Municipio” di Wombaracoppoli includeva tre ratti e ragnatele oltre a catene e un grosso lucchetto. Molto apprezzata era la presenza di raffigurazioni femminili nelle pagine dei giornali che, pur senza assumere valenze volgari e scabrose, sollecitava la fantasia di migliaia di giovani soldati costretti a un prolungato isolamento forzato dalle donne.

LABORATORI DIDATTICI E DI GIORNALISMO

I giornali di prigionia rappresentarono per molti improvvisati redattori una vera e propria palestra che sancì l’esordio di una carriera proseguita poi negli anni Venti e Trenta. Il giornalismo nei campi di prigionia aveva mille sfaccettature. In primo luogo consentiva di dare agli internati italiani una parvenza di normalità e di attenuare l’ozio e la logorante routine. Fornivano poi informazioni di servizio che nella quotidianità del campo assumevano un contributo importante soprattutto in relazione all’igiene e alla ricezione dei pacchi. Inoltre, considerato che la stragrande maggioranza dei militi italiani era analfabeta o semianalfabeta, i giornali furono in molti casi una sorta di laboratorio didattico e linguistico. Ferraro mette in evidenza una peculiarità forse sottovalutata nelle redazioni dei giornali di prigionia.

Ebbene nell’organizzazione di questi ultimi la rigida gerarchia militare veniva meno. Ad essere premiate erano le competenze utili alla stesura e alla distribuzione degli scritti. Capitava quindi che la buona penna di un giovane tenente prendesse il sopravvento sull’autorità di un carismatico e canuto generale. Le elezioni per eleggere i rappresentanti dei prigionieri trovano ampio spazio sui giornali ed erano motivo di accesi scontri. Il campo finiva con assumere, nei limiti del possibile, i connotati di un Municipio.

LA SOFFERENZA NERO SU BIANCO

Ma l’inchiostro delle pagine dei giornali era intriso anche dei patimenti, delle umiliazioni e delle privazioni dei prigionieri. La cattura era vissuta come una vergogna da molti ufficiali e ne prostrava lo spirito. Le malattie erano una costante con cui i soldati dovevano fare i conti in condizioni igienico-sanitarie precarie. La sifilide e la tubercolosi erano le patologie più temute e debilitanti.

La fame, soprattutto negli ultimi due anni del conflitto, attanagliava le viscere dei prigionieri. «Un gruppetto di prigionieri cenciosi, dai visi terrei nel grigio baraccano della coperta, con i berretti più svariati e più sformati, le giubbe e i pantaloni a brandelli, le scarpe scalcagnate e aperte sulla punta ad un riso beffardo. Entrano nelle buche con la rapacità del corvo che ha adocchiato il più lurido dei becchimi, e vi guazzano nella ricerca e nella cernita di qualche cosa da avvicinare alla bocca», si legge nell’edizione della Scintilla del 12 agosto del 1917. Nei giornali erano presenti anche ricette per cucinare e soprattutto ottimizzare la conservazione dei pochi alimenti a disposizione, per lo più patate e carote. I mesi invernali e le festività natalizie costituivano il periodo più duro dal punto di vista psico-fisico per i prigionieri. Alle temperature gelide e ai morsi della fame si aggiungeva con maggiore trasporto emotivo la nostalgia di casa e delle famiglie.

UN’EREDITA’ STAMPATA

Le esperienze giornalistiche di prigionia durante la Grande Guerra sono un lascito importante di uno spezzone di vita di migliaia di uomini. Ingegno, forza d’animo, angoscia e nostalgia si mescolano nelle rudimentali pagine di prigionia. Una testimonianza tangibile di fatti e circostanze quasi sconosciuti durante un evento dirompente e totalizzante come il primo conflitto mondiale.

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