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Paolo Cosentino e Paride Leporace

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CI sono Fedez e Chiara Ferragni, Draghi, l’elettore medio, dal “populista” al più disincantato. C’è il politico navigato, l’astenuto, il ragazzino che invece preferisce giocare con lo smartphone.

Nel pamphlet dell’avvocato e saggista Paolo Cosentini sul Pensiero stanco, ci siamo proprio tutti, nessuno escluso: l’umanità intera è riflessa allo specchio, costretta a fare i conti con sé stessa, declinata in categorie del pensiero alle quali ognuno di noi finisce, inevitabilmente, con l’appartenere.

L’occasione per la presentazione del volume, nella Sala Tito della redazione centrale del Quotidiano del Sud, ha coinciso con la ripresa in presenza – per la prima volta dopo il lockdown – del ciclo di incontri culturali organizzati in collaborazione con l’Istituto di Studi storici di Cosenza, rappresentato dal presidente Raffaele Caputo e dalla segretaria Teresa Faillace. In un dialogo agile e appassionato con il vicedirettore Paride Leporace,

Cosentini – già editorialista del Quotidiano, una parentesi tra gli scranni del Consiglio comunale ed anche da assessore – ha confidato, quasi come ad un amico di vecchia data, i sentimenti che lo hanno accompagnato prima, durante e dopo la stesura del suo testo. Perché «scrivere non è altro che rappresentare sé stessi». Non prima, però, dei saluti di Walter Brenner, editore di spicco della città bruzia, che ha esaltato la semplicità (che, si badi bene, non vuol dire pressapochismo) con cui il “manualetto” riesce nell’intento di comunicare al lettore un messaggio complesso e articolato.

Torniamo, dunque, al testo. Nei gironi danteschi immaginati dall’autore ci sono almeno quattro tipi di pensiero: quello “furbo”, che appartiene agli individui senza morale né etica; quello “ozioso”, tipico dei parassiti sociali; quello “positivo”, delle menti brillanti, intelligenti e creative; infine, quello “stanco”, che rappresenta la fetta più ampia della popolazione, su cui è incentrato l’intero libro. Il non pensiero, un misto di «stanchezza fisica, umiltà, semplicità, ignoranza, bonomia e dabbenaggine»,

così Cosentini descrive il pensiero stanco tra le righe del suo saggio, stigmatizzando, quasi come il Giorgio Gaber del Sociale e l’antisociale, l’atteggiamento di chi non si interessa, di chi non prende posizione, dei conformisti e di quanti non provano in alcun modo a cambiare la realtà. Cosentini ci prende per mano nella selva dei disillusi mettendoci in guardia dal compiere scelte sbagliate (o dal non scegliere affatto, che è un’altra faccia della stessa medaglia): perché – e qui la lettura dei versi è affidata alla magistrale interpretazione di Silvio Stellato e dall’accompagnamento musicale di Manolo Muoio – «quando si commette un errore nella sfera delle relazioni si può sempre trovare il modo di riparare a meno che non sia gravissimo. Ci si stufa di una persona? Non la si frequenta più. Un parente ci diventa insopportabile? Si diradano i rapporti. Quando, invece, si commette un errore nella scelta del proprio rappresentante politico le conseguenze si dovranno poi subire per almeno un quinquennio e i danni possono diventare irreparabili».

Per capire come lo scrittore sia arrivato a un ragionamento del genere occorre, però, compiere un balzo indietro. Andare alla genesi del racconto, nato dal «senso di frustrazione che si prova quando si tenta di cambiare le cose».

La “molla” fu la lettera di una professoressa del lametino a seguito di un suo articolo sul tema del pensiero stanco. Gli raccontò di averlo letto in classe e che ne nacque un bel dibattito tra i suoi alunni. Da lì l’idea che valesse la pena andare avanti, lasciare una traccia di sé. Forse è per questo che nel suo lavoro sono disseminate alcune delle sue letture più significative: il compendio del professor Carlo Cipolla che lo ha ispirato, l’«eretico» Céline col suo “Viaggio al termine della notte” («Devastante», ndr), l’ironia di Marcello Marchesi.
Ma anche le sue convinzioni: ad esempio sulla preferenza unica che – ha spiegato durante l’intervista – ha distrutto i partiti, è sinonimo di autoreferenzialità, di una politica fatta solo del condottiero di turno a scapito delle intelligenze migliori».

Leporace lo incalza: e se quello del condottiero di turno fosse un meccanismo studiato proprio per preservare i migliori? «No, la politica oggi è screditata. Senza ideologia non c’è politica. Abbiamo perso il buon senso», è la sentenza. Infine, l’augurio che il suo libro possa arrivare soprattutto ai giovani. Forse vale ancora la pena di crederci.

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